Per la prima volta emerge un grave rischio sociale: i lavoratori flessibili sono destinati a vivere con stipendi e pensioni irrisori.
Trampolino di lancio verso il mondo del lavoro o trappola a vita? Anticamera per il paradiso di un'occupazione dignitosa e soddisfacente o girone infernale senza uscita e senza speranze? Da almeno 10 anni, da quando cioè cominciarono ad apparire le prime figure di lavoratori cosiddetti atipici ai tempi del governo di Lamberto Dini, economisti e politici si accapigliano sul mondo all'apparenza sfuggente e inafferrabile di flessibili, precari, parasubordinati, cococo, cocopro e simili.
Più che ancorato a statistiche e dati certi, il dibattito finora è apparso orientato dalle appartenenze, dalle ideologie, se non dai pregiudizi. Essere pro o contro flessibilità e lavoro atipico in questo contesto è stato spesso più un atto di fede che una scelta ragionata.
Ora un accurato rapporto dell'Isae (Istituto di studi e analisi economiche) aiuta se non altro a orientarsi meglio. Lo studio effettuato con l'incrocio di una mole notevole di dati Inps e delle 40.386 interviste a base dell'indagine Plus 2005 dell'Isfol, istituto per la formazione del lavoro, non scioglie con un colpo netto il quesito forse irrisolvibile: se il lavoro atipico sia un'opportunità o una condanna. Per la prima volta, però, documenta non a spanne, ma sulla base di un approccio scientifico, la possibile insorgenza di un rischio sociale gravissimo.
Il rischio, cioè, che si stiano creando i presupposti perché in futuro si formino schiere di anziani poverissimi. Una prospettiva sociale preoccupante e per niente scongiurata da quanto stabilito nella Finanzaria 2007 a proposito di regime contributivo per gli atipici, con l'innalzamento della contribuzione dal 20 al 23 per cento, un terzo a carico del lavoratore e due terzi del datore di lavoro.
Il capitolo del rapporto che riguarda le prospettive previdenziali dei flessibili cerca di delineare che cosa succederà a un lavoratore atipico nel momento in cui arriverà in fondo alla sua carriera lavorativa. Il soggetto preso in esame non è un tizio sfortunatissimo, con un salario di ingresso eccezionalmente basso e una vita lavorativa particolarmente negativa e accidentata.
Anzi, il signor X dello studio appare se non tra i più fortunati, almeno al di sopra della media: venticinquenne, ha uno stipendio di ingresso di 14.500 euro lordi all'anno e sulla base delle statistiche Isfol finora disponibili si ipotizza che nell'arco della sua carriera sia perseguitato da una probabilità di disoccupazione pari all'11,3 per cento all'anno.
Cioè si suppone che proprio in quanto flessibile non lavori tutti i 12 mesi, ma il suo impegno sia intervallato da buchi di non lavoro. Si suppone, infine, che per lui l'atipicità sia non una condizione passeggera, ma un vincolo a vita, cioè che non riesca mai a evadere dalla precarietà e a raggiungere un contratto a tempo indeterminato.
Di tutte le ipotesi assunte dai curatori dello studio, questa è l'unica veramente aleatoria, nel senso che dopo un decennio di sperimentazione della flessibilità nessuno è in grado di dire davvero se la società italiana dovrà fare i conti con la figura dei precari a vita oppure se prima o poi anche per ogni atipico ci sarà una qualche redenzione lavorativa.
Dallo studio risulta che in molti casi l'atipicità si configura come una trappola e in moltissimi altri è invece una rapida fase transitoria verso contratti di lavoro migliori. In particolare dal rapporto emerge che «chi è già stato in passato un atipico nel 22 per cento dei casi lo è ancora, mentre nel 45,7 il lavoro atipico è stato seguito da un'assunzione a tempo indeterminato».
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