Giuliano Garavini. 4 novembre 2006
150 mila precari, soprattutto giovani, immigrati e studenti hanno sfilato pacificamente a Roma. Gli obiettivi della manifestazione erano in special modo l'abolizione della legge 30 (la Biagi) e della Bossi-Fini (sull'immigrazione). Ma non si può negare che lo spirito e i progetti dei manifestanti fossero variegati; la ricetta contro la precarietà non è ancora stata miscelata in modo convincente
Sarà stato il sole, o il cielo blu, in questo primo sabato invernale. La manifestazione per dire "Stop alla precarietà" è stata senza dubbio un successo. Sono venute a Roma tra le 100 e le 150 mila persone. Hanno sfilato pacificamente per oltre 2 ore. Nonostante la quantità oltraggiosa di forze di polizia, l'unico piccolo incidente si è verificato quando un gruppetto recante un manifesto con scritto "in Lotta Continua" ha cercato di bloccare il carro di Rifondazione comunista. Allarme presto rientrato.
Si è trattato di un corteo variopinto. La frase è di rito. E variopinto è stato, e inondato della musica dei giovani, che più passano gli anni e più spacca le orecchie. Ma, per quanto variopinto, i colori che hanno dominato la scena sono quelli delle bandiere della Fiom (2 treni e 120 bus, ma in realtà semplicemente tanta gente), i giubbini contro la precarietà di "Lavoro e Società", l'area programmatica di sinistra della Cgil, quelle di Rifondazione e, poi, dei Cobas. Slogan e cuori dei manifestanti sembravano spinti, genericamente, a rivendicare più soldi in busta paga, l'abolizione della legge Biagi e della Bossi-Fini, la dignità di che non vuole essere usato a scadenza. Un giornale di sinistra che ama le prediche e assai meno le battaglie sociali, "la Repubblica", l'aveva chiamata la "manifestazione dei Cobas". Quella del 4 novembre è stata la manifestazione dei giovani e giovanissimi, degli immigrati, degli studenti, dei lavoratori della Cgil, e sì, infine, anche dei Cobas.
Riflettiamo un poco sulle cifre. Secondo i dati dell'Inps del 2005 (la fonte più attendibile) i lavoratori atipici, quelli iscritti alla Gestione separata nella posizione di dipendenti, sono più o meno un milione. Questi precari hanno intorno ai 35 anni, guadagnano meno di 800 euro al mese, oppure fra gli 800 e i 1000 e, dato fondamentale, sono per lo più dipendenti pubblici o di ex enti pubblici. In altre parole: il pubblico genera più precariato del privato. Tenuto conto di queste cifre la manifestazione è stata ragguardevole per dimensioni. Ma il mondo del precariato è ovviamente più vasto perché comprende chi lavora in nero, chi lavora con contratti da fame, il popolo delle partite Iva che in realtà svolge un lavoro da dipendenti.
Ma non si può evitare anche qualche considerazione politica. Il grande assente della giornata è stata la Cgil. In un'inserzione su quotidiani di sinistra erano stati segnalati esponenti del Governo e della stessa Cgil, membri del comitato organizzatore della manifestazione, come fiancheggiatori della Confindustria. Alla Cgil era parso che non ci si fosse spesi sufficientemente in sua difesa e ha colto l'occasione per sfilarsi dal corteo. Per chi ha memoria storica, è comunque dagli anni Settanta che il più grande sindacato italiano viene accusato come fiancheggiatore di qualcosa e i suoi dirigenti minacciati. Alla luce dei fatti, una componente assai ridotta degli organizzatori, ha spinto la più grande organizzazione sindacale italiana a non partecipare e a dividersi pericolosamente al suo interno.
Gli obiettivi della manifestazione erano in special modo l'abolizione della legge 30 (la Biagi) e della Bossi-Fini (sull'immigrazione). Ma non si può negare che lo spirito e i progetti dei manifestanti fossero variegati; la ricetta contro la precarietà non è ancora stata miscelata in modo convincente. In questo momento l'importante sembra più che altro partecipare all'interno dei movimenti, sforzarsi di comprendere le dinamiche anche internazionali dell'economia e le nuove condizioni lavorative.
Andrea Montani di "Lavoro e Società" sostiene la ricetta prescritta dalla Cgil che è quella di attaccare la precarietà soprattutto per via legislativa: scoraggiare il lavoro precario anche aumentando i contributi previdenziali per rendere meno favorevoli i contratti parasubordinati rispetto a quelli a tempo indeterminato, garantire una soglia di diritti per i precari, puntare alla razionalizzazione delle figure contrattuali. Alle mie obiezioni sul fatto che l'aumento dei contributi per gli atipici, adesso in finanziaria, significherà solo meno soldi in busta paga per i giovani senza garanzie sui salari, Montani risponde che: "Noi possiamo garantirvi uguali diritti, ma le vostre rivendicazioni salariali dovete farvele voi. Io sono per il sindacato di lotta. Non dovete accettare salari indegni". La parte di me che ha voglia di battersi non può che dargli ragione; ma non riesco a capire come possiamo lottare per salari migliori visto che i nostri datori di lavoro sono in maggioranza aziende pubbliche, università, cooperative sociali, enti pubblici, che possono semplicemente decidere di non assumerci visto che non sono sul mercato, non devono fornire un prodotto competitivo, e non devono battersi con una concorrenza.
Questa idea di un aumento dei contributi previdenziali sul lavoro atipico sembra essere l'unica norma contenuta nell'odierna finanziaria per combattere il lavoro precario. Allora chiedo ad un poco di giovani se ne ha mai sentito parlare. Lo chiedo ad oltre una ventina di giovani di centri sociali, Giovani comunisti, semplici passanti, e nessuno ne ha mai sentito parlare. Nemmeno riesco bene a spiegare perché dovrebbe battersi per versare più contributi, e quindi guadagnare di meno, in nome di una pensione un poco più dignitosa.
Ma perché un operaio senegalese dovrebbe battersi contro il precariato? Sech, iscritto alla Fiom bergamasca, dice che la precarietà è anche nelle fabbriche e mentre lui ha un contratto a tempo indeterminato ci sono altro che lavorano a settimane o a mesi. Inoltre bisogna tirar giù la Bossi Fini che incentiva il lavoro nero e dunque priva i lavoratori di qualsiasi garanzia. Intorno a lui, i compagni intonano: "Luca Cordero dacci el dinero".
I Cobas ed alcuni centri sociali si battono per la liberazione dal lavoro dipendente. Anche qui si tratta di una battaglia degli anni Settanta (quando c'era più lavoro), ma pone una questione importante che trova assai poco simpatia nel sindacato confederale: quella del reddito sociale e anche del salario minimo. La battaglia per la difesa del salario minimo (lo Smig che in Francia è pari a 1250 euro al mese) ha contrassegnato anche i conflitti nelle periferie parigine, e ha aperto anche la strada alla lotta vincente contro il Cpe (il contratto di primo impiego) che indeboliva le garanzie per i giovani fino a 26 anni. Il salario sociale, così come il reddito di disoccupazione, significherebbero l'ammissione che la nuova economia flessibile non garantisce una crescita continua e stabile dell'economia e che dunque bisogna fornire i cittadini di paracaduti e di strumenti di difesa. E' un'idea che però indebolisce i sindacati perché affida la difesa dei lavoratori a puri meccanismi legislativi e non al conflitto sul lavoro, restringe la possibilità di partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali. Intanto però i giovani italiani sono i meno garantiti d'Europa e dipendono interamente dal supporto di famiglie generose ma sempre più impoverite.
Ci sarà ancora da manifestare e da ragionare sulla questione del precarietà, sul come ridare dignità e stimolo creativo al lavoro, ma è bene stare in piazza, nei luoghi di lavoro, così come è bene cestinare gli studi di Confindustria ed avere un poco più di fiducia nelle nostre capacità intellettuali.
Nessun commento:
Posta un commento