SUL TORINO-ROMA VERSO LA MANIFESTAZIONE ACCOMPAGNATI DAI GENITORI
Padri col posto fisso, figli con l’incubo del domani
5/11/2006
di Pierangelo Sapegno
ROMA. Quando ha vent’anni, Michele ha preso questo treno. Li ha compiuti ieri. Ha le cuffie alle orecchie e sta ascoltando i Green Day. Papà non li capisce i Green Day: è venuto su a Battisti e De Gregori. Quelli ti cantavano «che ne sai tu di un campo di grano, poesia di un amore profano». Roba per gente che sta bene. Nello scompartimento, c’è uno che taglia il salame e un altro che guarda fuori il buio. Michele ha un anello sulla narice del naso, i capelli neri folti che gli fanno la guerra sulla testa. Ti guarda come se non si fidasse troppo. Certo che è un precario. Ma si rimette subito le cuffie.
Commercio, part time, 400 euro al mese, qualche volta 500. Papà Franco è quello lì che passeggia nel corridoio, e sta parlando di politica, e lo indica come se bisogna aver pazienza, perché è un bravo vecchietto, in fondo. Sta dicendo che «Berlusconi nei primi cento giorni aveva fatto subito le leggi per sé e per quelli che l’avevano votato. Prodi invece non ha fatto ancora niente per i suoi elettori». Lui parla sempre di politica, dice Michele. Lavora a Mirafiori, almeno un posto sicuro ce l’ha, papà. «Ma non andiamo a protestare contro il governo», sussurra Franco. «Poniamo un problema». Suo figlio si rimette le cuffie.
Una vita da precario non è come questo treno, risponde prima di sbuffare. «Perché adesso sappiamo dove stiamo andando». Un treno nella notte. The Saints are coming, come dice la canzone. Quando Rosi Conzo aveva vent’anni, aspettava la prima figlia. Adesso che «la bimba», come la chiama ancora, ha 25 anni, le hanno fatto un contratto di 5 giorni all’Ipercoop, per 4 ore al giorno e 7 euro all’ora. Ha studiato, ha un diploma e un fidanzato che non può sposare: in due non hanno una lira. Per questo, la mamma ha preso questo treno di precari organizzato dalla Fiom, che va a Roma alla manifestazione. Partenza da Torino, ore 23 e 55, due convogli, 21 carrozze, Giorgio Airaudo che fa l’appello sul marciapiede, «Simoncelli Carlo alla 12», il cordone di gente che s’allunga sulla banchina. «Dov’è Simoncelli Carlo?» Quando Rosi aveva vent’anni un marito ce l’aveva, e aveva un tetto e un lavoro in fabbrica per credere che qualcosa sarebbe cambiato, che la vita sarebbe stata diversa.
«Non avevo avuto tempo per studiare», dice. «Ma a mia figlia non è servito niente averlo fatto». Adesso Rosi lavora ancora in fabbrica, a Mirafiori. E’ una donna molto carina, gli occhi neri grandi, i jeans stretti e una maglia dolcevita. S’è separata due mesi fa e deve mantenere due figlie senza futuro. Anche la più giovane, vent’anni, ha fatto un mese a L’Oreal e poi a casa. «Sono contratti dove devono accettare qualsiasi situazione, lavori senza diritti. Mia figlia grande ha cominciato come commessa in un supermercato. Dopo 3 anni doveva passare fissa e invece l’hanno lasciata a casa. La mia busta paga è così bassa che devo risparmiare su tutto. Ho smesso di fumare solo per spendere meno soldi. Il giornale lo leggo solo al bar. La macchina, pago il bollo e l’assicurazione, ma non posso usarla. Venti euro di benzina a botta sono troppe per me». Quando Sara ha compiuto vent’anni, ha cominciato a conoscere il mondo del lavoro.
Ha un posto al call center del Lingotto, al secondo piano, due open space grandi come una palestra, moquette e computer. Contratti cococo, poi un po’ fuori e un po’ dentro. Turni di sei ore e mezzo, massimo 700/800 euro. Sua mamma ha fatto gli scioperi perché cambiassero i loro contratti. Lei faceva la crumira se no la mandavano a casa, e sua mamma che è assunta a tempo indeterminato «faceva la lotta», come racconta adesso. «Era il marzo dell’anno scorso, e i genitori hanno tenuto duro per i figli». Da allora è cambiato che «qualcosa siamo riusciti a ottenere», come spiega Marco Di Mattia, il delegato sindacale: «Su 300, cinquanta sono stati assunti e gli altri 250 inseriti a tempo determinato sei mesi più sei mesi. Non è molto, ma prima era peggio».
Sara dice di sì, che è vero. E’ da 3 anni che tira avanti al call center, e le andrebbe già bene riuscire a fare quello che fa la mamma, che ha il posto fisso lì a un telefono, anche se poi non guadagna più di 800 euro, anche se lì dentro fa troppo caldo o troppo freddo e hai sempre il mal di gola e anche se magari è un lavoro un po’ alienante, come si dice adesso. «Ma almeno hai una certezza. E si vive meglio pure se è una certezza da poco». Quando aveva vent’anni, Massimo Russo è venuto su da Napoli a Torino per trovare un lavoro in fabbrica. E’ finito alla Bertone. Adesso ha 49 anni. Sua figlia Erika, di 18, lavora da precaria in un call center, 450 euro al mese. E’ venuto giù a Roma per lei. Ma Massimo oggi è un cassintegrato. Lo è da quattro anni, e se dovesse dire non sa chi sta peggio. Forse è la stessa cosa. «Mia figlia è disperata. Non ha molte cose da raccontarmi. Però ha pietà di me. E’ questo che mi colpisce». Massimo si alza alle 8 tutte le mattine, come se dovesse andare al lavoro. Gli danno 700 euro al mese. Va in giro, prende il giornale, «il meno caro che riesco a trovare», un caffè al bar aspettando che arrivi mezzogiorno. Va a casa, guarda televideo.
Al pomeriggio, ogni tanto si imbuca in una biblioteca e sta lì fino a sera. Quando a casa c’è sua figlia, ci sono molti silenzi, «perché io ho poco da dirle e lei ha paura di umiliarmi». Il sogno di Erika era di studiare all’università, Economia e Commercio, e Massimo dice che gli dispiace non aver potuto aiutarla. Per questo, è venuto giù per lei, per cercare di darle una cosa che le possa servire. In realtà, a Erika non interessa poi nemmeno. «Mi dice che l’ultima cosa che vuole è un lavoro fisso». Ah sì? «Non mi guarda negli occhi: papà, non vedi che fine hai fatto».
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