6.11.06

Ma Damiano crede alla “buona” flessibilità...

Il ministro ieri era a Venezia coi colleghi europei.

«Ci vuole pazienza», dice il ministro Damiano. Pazienza per sopportare «aggressioni» come quella dei disobbedienti. Pazienza per mandare giù i Cobas, che «usano un linguaggio che riporta a periodi bui». Pazienza per accettare che un altro ministro - Ferrero - metta il naso negli affari suoi, e si permetta di dichiarare che «sulla precarietà non è stato fatto molto». Pazienza - ma questo Damiano non lo dice - ci vuole anche con Confindustria, che ieri ha opposto il suo “niet” alle linee guida per la riforma dei contratti a termine, che ne limitano l’uso liberalizzato da Berlusconi. Pazienza, per finire, ci vuole anche per riformare il mercato del lavoro, per fare la concertazione, per modificare la legge 30.
Il ministro Damiano, in conclusione della due giorni di convegno sul “nuovo manifesto del lavoro” dei riformisti, veste i panni della moderazione, e sbarra gli occhi davanti manifestazione che si tiene nelle stesse ore a Roma. Alla presenza dei suoi colleghi di Francia, Germania e Spagna spiega le linee del suo disegno per cambiare il mercato del lavoro. Primo: la competitività delle imprese va garantita e sostenuta, il fordismo ormai è finito, e con esso il mito del posto fisso. Ma con la precarietà, quella che serve solo a ridurre i costi, non bisogna esagerare. Ed ecco, quindi, una «politica di incentivi e disincentivi» per spingere le imprese a migliori consigli. In una due giorni di studi dove i giuslavoristi hanno dettato banco, il Ministro Damiano non parla né di “abrogazione” né di “superamento” della legge 30 (nonostante continui ad affermare che la bussola della sua azione è il programma dell’Unione). E rimanda ogni particolare ai tavoli di trattativa su pensioni e lavoro di gennaio. Ma il quadro è ormai chiaro. Anche se, come dice Treu, «è solo tratteggiato a matita»: una “carta dei diritti” che dia gradazione alle tutele di un mercato del lavoro che rimane diviso in tre parti (subordinati, parasubordinati, autonomi); una riforma del welfare che affronti il nodo della flexsecurity; incentivi per spingere le imprese a comportamenti virtuosi. Solo in un’occasione il ministro si lascia andare a proposte più precise. Quando afferma che «non ho strumenti per garantire che l’aumento dei contributi previdenziali per i cocoprò non ricada sui loro salari». Per risolvere questo inghippo, Damiano, arriva a parlare di «salario minimo». Ma solo in questo caso, sia chiaro.

Per il resto, nella giornata conclusiva del convegno organizzato dalla fondazione Eli a Venezia, si parla di Europa, con gli interventi dei ministri del Lavoro di Francia (Gerard Lacher) e Spagna (Jesus Caldera), del sottosegretario allo stesso ministero Tedesco Kajo Wasserhovel, e della segretaria del Ces, la confederazione dei sindacati europei, Catelene Passchier. Si parte dalla sconfitta del referendum europeo, che trova fondamento nella «crisi dell’Europa sociale». «Non accettiamo che le esigenze dello sviluppo colpiscano i diritti sociali. Per questo abbiamo riformato il nostro mercato del lavoro e ci opponiamo alla direttiva europea che liberalizza l’orario di lavoro», afferma il ministro spagnolo autore di una riforma che limita la reiterazione dei contratti atipici. Molto più caute le riflessioni di francesi a tedeschi, i primi barricati in difesa del proprio Cne (fratello maggiore del Cpe abbattuto dagli studenti); i secondi alle prese con la gestione della riforma liberista di Schroeder, che nel paese non riscuote grandi consensi. Qualcosa in più ce la dice Catelene Passchier, reduce dal primo congresso del sindacato europeo, l’unica che affronta il tema del lavoro migrante («non si può parlare di costo del lavoro finché ci saranno lavoratori senza documenti»), e propone una nuova regolazione europea che permetta di controllare la deregulation del mercato: «Senza regolazione il mercato sarebbe un fiume in piena capace di demolire ogni diga. Nell’alluvione che ne seguirebbe potrebbero salvarsi solo i più forti», dice la sindacalista olandese. Il suo intervento è tra i pochi che, a Venezia, mantiene accesa una speranza per un’Europa diversa.

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