7.11.06

4 Novembre: Siamo tutti precari, e non ci piace affatto

A Roma in 200.000 da tutta Italia. Per chiedere l'abrogazione della legge 30, della Bossi-Fini e della «riforma Moratti». Le mille facce del «popolo della pace» che ha tenuto in piedi la lotta contro la guerra e il governo Berlusconi: dall'Arci ai Cobas, da «Lavoro società» ai sindacati di base, dagli studenti a una parte dei «disobbedienti» Un mare di metalmeccanici consapevoli che dentro il sindacato si gioca una partita importante, da cui dipende l'autonomia della stessa Cgil. Non ha avuto effetto la «scomunica» emessa giorni fa dalla segreteria.

Non tutte le polemiche vengono per nuocere. Anzi. Quel tanto di pepe sparso da una spericolata manchette dei Cobas su questo giornale ha spinto tutti gli organizzatori della manifestazione di ieri a raddoppiare gli sforzi. E i risultati si sono visti in piazza. Un fiume di gente ha attraversato Roma. Dal piccolo palco improvvisato, a piazza Navona, si parla di 200.000 persone. E non è una cifra lontana dalla realtà. Quando il corteo è già dentro la piazza, la coda sta appena iniziando a lasciare la stazione Termini.
La partenza è lenta. Bisogna organizzare un cordone di servizio d'ordine per forzare il «blocco» dei giornalisti, piovuti come mosche sullo striscione di testa per strappare una dichiarazione polemica, uno slogan buono per la politica politicante. «Stop precarietà ora!», il drappo bianco apre la marcia, sostenuto dai dirigenti di tutte le associazioni presenti nel comitato promotore. Le bandiere alle loro spalle sono tutte mescolate: Fiom, Arci, Cobas, SinCobas, molte della Cgil, tante arcobaleno. Prima ancora si potevano vedere storici dirigenti sindacali e «pericolosi autonomi» abbracciarsi per la gioia di aver messo assieme così tanta gente.
E' questa l'anima incomprimibile del «popolo di sinistra» che ha retto le piazze negli anni delle guerre e di Berlusconi; che ha imparato a conoscersi e rispettarsi nonostante le differenze e l'orgoglio di organizzazione. Quel «popolo» che ha reagito alle polemiche, e alla volontà di veder fallire questa giornata, raddoppiando treni, pullman, auto.
La precarietà è in cima alla lista dei problemi aperti. Comprende e supera, in parte, anche le questioni della scuola e dell'immigrazione. La piattaforma comune pretende l'abolizione della «legge 30», della Bossi-Fini e della Moratti. Ma la precarietà è un cancro che si diffonde ben al di là della condizione contrattuale, fino a toccare, accomunandole, l'esistenza stessa di persone per altri versi diversissime. I lavoratori della Sogei (la società che gestisce l'anagrafe tributaria) sono a fianco dei dipendenti delle «cooperative» su cui è stata «esternalizzata» parte dell'assistenza sociale. Gli studenti medi o universitari viaggiano vicini a facce di sessantenni che tengono il ritmo anche del sound system montato su un camion («siamo nati con l'esplosione del rock' roll, ci vuol altro per spiazzarci»).
Ma è lo «spezzone» della Fiom - quasi la maggioranza assoluta del corteo - a dare il colpo d'occhio più vigoroso della giornata. La «scomunica» pronunciata dalla segreteria della Cgil, la settimana scorsa, ha stimolato una reazione davvero eccezionale. I metalmeccanici hanno capito che qui si giocava una partita importante: per loro come categoria e per l'«autonomia» di tutta la Cgil. E sono arrivati in massa, inquadrati in file strette, con bandiere, pettorine, striscioni. Città dopo città, a far vedere che una parte decisiva del sindacato è qui. Solo da Torino hanno messo insieme un treno intero e sei vagoni, più di 1.500 persone.
E lo stesso hanno fatto quelli della corrente «Lavoro Società», pur interna alla maggioranza congressuale di Rimini. Con le loro pettorine gialle sono presenti un po' in tutti i settori. Soprattutto dietro gli striscioni della «funzione pubblica» (che pure non aderiva ufficialmente) e della Lombardia.
Striscioni e slogan molto critici con il governo, naturalmente, non mancano («la legge Biagi è da cancellare, è scritto nel programma, non ci provare»). Ma è sul «merito» dei provvedimenti che questo popolo si misura. E' qui che chiede cambiamenti profondi nella struttura della finanziaria. Consapevole oltretutto che la partita sarà durissima («ci vediamo a gennaio, vedrai; Bombassei - vicepresidente di Confindustria, ndr - ha già detto che vuole la flessibilità dell'orario di lavoro»), a partire dal nodo pensioni.
Non manca, come sempre, qualche imbecille che prova a farsi vedere «più estremo» della massa. Ma quasi nessuno se ne accorge. Niente a che vedere con gli allarmi interessati sparsi ad arte nei giorni scorsi.
A piazza Navona si susseguono gli interventi conclusivi, con precari in carne e ossa - invece che leader di organizzazione -a parlare da un palco striminzito, appena un furgoncino. C'è l'immigrato, il «fantasma del S. Andrea» a ricordare lo stato della sanità, quello dei call center e quello della scuola, quello di Napoli e l'occupante di case. Si applaudono tutti, con la testa già a domani, quando le «discussioni» - specie all'interno della sinistra e del sindacato - «diventerà vivace». Ma «con questi numeri davanti al naso si ragiona certamente meglio».
Poi la piazza è colma e il resto del corteo non riesce neppure ad entrare. A largo Argentina si fermano due dei camion, e la piazza diventa il «secondo polo» della serata. Un plotone di carabinieri è preso nella folla da tutte le parti, al punto che un ufficiale nervoso li obbliga a schiacciarsi contro il muro per «non farsi passare la gente alle spalle». Tra le due piazze comincia il via vai di chi si incammina per recuperare un treno o un pullman e di chi va avanti ancora un po' per arrivare «in fondo». Dopo ore di cammino ti ricordi che finché c'è il corteo le gambe vanno alla grande. La stanchezza arriva solo dopo, quando rimani solo. Anche per questo si manifesta: per non rimanere soli davanti a qualcuno che vuol disporre di te come di una cosa. Precaria.

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