Avvelenati dal lavoro in serra. di Pippo Gurrieri
2 novembre 2006
Si succedono decessi i cui veri motivi rimangono oscuri. La cronaca e l’analisi di un fenomeno che cresce drammaticamente.
E’ una calda serata d’un agosto morente quando il corpo di Campus, giovane immigrato rumeno di 25 anni, viene abbandonato senza vita davanti all’ospedale di Comiso; due giorni dopo è la volta di Josif, sempre rumeno, ma di anni 46, ad essere abbandonato davanti al pronto soccorso di Ragusa, anch’egli morto. Le agenzie di stampa faranno il lancio parlando di braccianti morti per “avvelenamento da metanolo”, e quando giornali e tv raccoglieranno la notizia, altri immigrati entreranno in ospedale con sintomi di grave avvelenamento. Nell’arco di pochi giorni però la notizia scompare dagli organi di informazione, non prima di essere ritoccata citando il parere dei medici, che chiudono i casi parlando di probabile uso di metanolo per adulterare il vino. Tutti sanno che nei mesi estivi sulle serre non si può entrare perché i terreni vengono trattati con prodotti sterilizzanti, uno dei quali è il bromuro di metile, prodotto che, date le alte temperature del periodo, può portare all’avvelenamento di chi vi si espone per troppo tempo. Le serre iblee continuano a far uso di questo prodotto che gli accordi internazionali a protezione dello strato di ozono, raccomandano di sostituire con altri meno nocivi. Alcuni produttori più accordi appongono i cartellini col teschio e la scritta “pericolo di morte” nelle serre trattate. Insomma, non è possibile che i due malcapitati rumeni siano morti per avvelenamento mentre lavoravano alla preparazione delle serre per il primo raccolto autunnale? Il che giustificherebbe anche il fatto che siano stati abbandonati come cani morti davanti alle strutture ospedaliere, cosa che nel caso dell’ingestione di metanolocon il vino non sarebbe stata giustificata. Le serre da sempre sono state teatro di tragedie umane tremende, mietendo vittime in primo luogo in quel mondo bracciantile che negli anni sessanta le inventò; i contadini diventati piccoli proprietari si avvelenavano e ammalavano di tumore a causa del forte uso di pesticidi e prodotti chimici i più svariati. Poi, verso la fine degli anni ottanta sono arrivati gli arabi a fare il lavoro sporco e pesante, e le malattie sono passate a loro. Ancora nel 2005 l’ospedale di Vittoria è intervenuto su 4000 immigrati ricoverati per incidenti sul lavoro; il 10% di tutti gli interventi medici sono rivolti a loro, a dimostrazione delle condizioni in cui vivono e lavorano. Ma la vicenda dei poveri rumeni, qualche che sia la verità, ci riporta alla realtà dell’agricoltura cosiddetta trasformata che nella fascia costiera del ragusano, ma anche nel catanese, nel nisseno tra Niscemi, Gela e Licata, nell’agrigentino, vede da anni impiegata manodopera extracomunitaria, in prevalenza magrebina, almeno fino a quando, da un paio di anni, non è stata lentamente soppiantata dall’immigrazione dell’est Europa: un esercito di ucraini, rumeni, polacchi, albanesi, uomini e donne, che si impone, grazie ad un’organizzazione senza scrupoli di caporalato e in virtù di costi veramente concorrenziali. Così, se un bracciante tunisino impiantato a Vittoria da 15 / 20 anni, era arrivato quasi a raggiungere la paga sindacale, o comunque a ricevere un salario giornaliero di circa 30/40 euro, adesso un operaio dell’est si accontenta anche di 10/12 euro a giornata, meno se donna. L’arrivo di questa nuova ondata di immigrati ha provocato un autentico cataclisma nei già precari equilibri sociali, innescando una miccia nella comunità nordafricana, che si è vista progressivamente espellere dalle campagne in paesi come Vittoria o Santa Croce Camerina, dove il numero degli immigrati è altissimo. Qui si è assistito a risse, proteste e anche a manifestazioni di piazza contro i nuovi arrivati; ma è da ritenere che il grosso degli scontri si sia svolto al di fuori di ogni visibilità, nelle coltivazioni, nei casolari fatiscenti dove gli immigrati sono costretti a vivere come schiavi perché clandestini, o semplicemente perché fanno un lavoro nero. Da dove trapelano le notizie più sconvolgenti sulle condizioni di vivibilità, sulle intimidazioni, sulle donne date in pegno ai padroni e ai caporali per ottenere il lavoro. Si difendono i proprietari delle serre, grandi e piccoli: il costo del lavoro è troppo alto e non ce la facciamo a resistere alla concorrenza. Così la concorrenza si abbatte con lo sfruttamento intensivo e il risparmio delle spese di ingaggio, assistenza, sicurezza. Il fatto è che oramai l’economia delle zone trasformate è in buona parte in agonia, fuori mercato, legata ai ricatti degli scaltri commercianti e dei grossisti, incapace di inventarsi una seconda rivoluzione che la rilanci su altre basi: sicuramente con in testa la qualità dei prodotti, dato che la quantità non assicura più redditi decenti. A meno che non si continui ad abbassare il costo del lavoro, quindi adoperando i nuovi schiavi dell’est. E così stiamo assistendo all’emigrazione degli immigrati, o verso il nord o verso i paesi di origine, e con essi partono le conquiste faticosamente fatte, i diritti acquisiti, la sindacalizzazione timidamente espansasi. I nuovi schiavi, senza diritti, senza documenti, senza un volto, assicurano la produzione accontentandosi di meno di due euro l’ora; l’agricoltura intensiva non può fare a meno di loro. Ma chi saranno i successori quando anche questi parìa del XXI secolo andranno via?
Pippo Gurrieri
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