Nicolosi (Cgil Lavoro e Società): stiamo insieme per ricostruire il movimento nell'era dell'Unione. Così come avvenne a Genova.
Tre treni speciali, decine di pullman, una nave dalla Sardegna e tante automobili: da tutta Italia il popolo che dice no alla precarietà sta scaldando i motori per partecipare alla manifestazione del 4 novembre. «Stop precarietà ora!» potrebbe segnare la ripresa del movimento. In vista della manifestazione per la pace prevista il prossimo 18 novembre. Le divisioni nella Cgil, gli anatemi lanciati contro il corteo sembrano non aver smosso una larghissima parte di dirigenti e lavoratori che hanno deciso di confermare la partecipazione nonostante la bufera seguita alla pubblicazione della manchette dei Cobas. La mobilitazione è capillare (basta guardare l'elenco che pubblichiamo sotto), e parte dalle camere del lavoro. Ma si ribadisce l'impegno di due grossi pezzi della Cgil, le aree che potevano essere «due minoranze» ma che hanno scelto all'ultimo Congresso di votare il documento unitario: Lavoro e Società e l'area che si è raccolta intorno alle tesi di Gianni Rinaldini, senza contare che la stessa Fiom ha aderito come organizzazione al 4 novembre; c'è anche la Rete 28 aprile di Giorgio Cremaschi.
Sul futuro del movimento e le scelte della Cgil abbiamo sentito il leader di Lavoro e Società, Nicola Nicolosi.
Come vi preparate al 4 novembre?
Ci stiamo preparando con un grande entusiasmo: lavoratori partono da tutta Italia, alcuni si stanno autotassando per raggiungere Roma. Io penso che sarà una grande manifestazione, colorata e pacifica. E c'è da segnalare un «paradosso»: l'incidente dei Cobas ha portato una grande pubblicità all'evento. Anche se, ovviamente, ci dispiace che alcuni pezzi della Cgil siano usciti. Il valore che abbiamo tentato di costruire portando gran parte della Cgil in piazza era proprio quello di riproporre il movimento del dopo Porto Alegre e di Genova: a Genova la Cgil non aveva aderito come organizzazione, ma a sfilare c'era il popolo della Cgil. Adesso alcuni compagni sono usciti, ma con la Fp, la Flc e la Fiom stiamo comunque lavorando perché dopo il 4 la Cgil si faccia promotrice di una grande iniziativa contro la precarietà. Da proporre, è ovvio, a Cisl e Uil: ma se non dovessimo raggiungere una piattaforma unitaria, allora credo che dovremmo andare da soli.
Ma la rottura sul 4 novembre non rischia di indebolire il vostro fronte? Facciamo un esempio: con la Fiom e la Rete 28 aprile avete posto il problema dell'avviso comune sui call center, che contraddice in modo lampante le conclusioni congressuali. Ora in Cgil si rafforzano le componenti «moderate»?
La Cgil non può tornare indietro, né pensare che si possa disapplicare quanto deciso al Congresso. Negli ultimi anni abbiamo costruito un'opposizione al governo di centrodestra non su astratte posizioni identitarie, ma su temi concreti come la redistribuzione del reddito e la lotta alla precarietà. La precarietà mina alla base la democrazia, perché crea lavoratori con diritti diversi e dunque cittadini diversi. Ma mina anche il sindacato, la solidarietà che sta alla base. La forza che abbiamo oggi ci viene da quelle proposte di legge firmate da 5 milioni di persone, dalla mobilitazione in difesa dell'articolo 18 e dalle conclusioni - non dimentichiamolo, unitarie - dell'ultimo Congresso. Lì si è sancito che la Cgil è per riunificare il lavoro, a partire dall'eliminazione della parasubordinazione per affermare un contratto unico dipendente. L'avviso comune sui call center sancisce che si possano dare minori garanzie ai lavoratori sulla base di distinzioni da «azzeccagarbugli», tra chi fa le telefonate e chi le riceve. Chiederemo il ritiro della firma, e una riscrittura dell'avviso: su questo tema, come sugli altri che si richiamano ai documenti congressuali che vincolano tutti, noi lavoreremo con quei segmenti della Cgil che hanno una sensibilità simile alla nostra.
In piazza il 4 dunque andrete nonostante la «condanna» espressa dai vertici Cgil?
Non si tratta di una condanna: c'è stata una netta presa di posizione rispetto alle idee espresse dai Cobas nella manchette. Usare determinati linguaggi che richiamano l'espressione violenta, o, peggio, attaccare una singola persona in quei termini, come si fa con il ministro Damiano, è sbagliato e provocatorio. Dall'altro lato, credo che sia stato un errore politico uscire facendosi dettare l'agenda da chi usa quel linguaggio. Io sono convinto che gli aderenti ai Cobas non sono violenti, però una parte del gruppo dirigente usa un linguaggio ai confini della correttezza come arma di propaganda politica e di offesa personale. Ma ripeto: non dobbiamo farci dettare l'agenda da questi incidenti. Ricostruire il movimento contro la globalizzazione neoliberista, sul tema della precarietà come su quello della pace il 18 novembre, è troppo importante: tantopiù oggi che c'è un governo di centrosinistra. Se non facciamo pressione dalla società, non possiamo pensare che nella maggioranza politica e nell'esecutivo abbiano spazio le sintesi più avanzate: quell'inversione di rotta sul lavoro, l'economia e la pace che tutti ci auguriamo.
(il manifesto)
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