9.10.06

Contratti a termine, ristabilire l'eccezionalità

dal Manifesto del 5 ottobre 2006

Alberto Burgio*
Roberto Croce**
Nell'articolo apparso sul manifesto il 28 settembre scorso, Andrea Allamprese ha posto al centro del dibattito sulle riforme del lavoro un tema di grande rilievo, rimasto sinora in ombra: quello del regime dei contratti a termine, introdotto dal decreto legislativo 368 del 2001. Si tratta di un tema che, per i suoi effetti sociali e giuridici, dovrebbe affiancarsi, nell'agenda del centrosinistra, a quello più frequentemente discusso dei contratti di «collaborazione a progetto».
Concordiamo con le valutazioni di Allamprese e con l'obiettivo di perseguire una profonda revisione dell'attuale disciplina dei contratti a termine. Proprio per questo ci pare opportuno richiamare l'attenzione su un aspetto generale, che merita di essere preliminarmente chiarito.
Partiamo dal confronto con la legge che regolava il tempo determinato prima dell'entrata in vigore del d. lgs. 368. La legge 230 del 1962 conteneva una normativa ben più protettiva dell'attuale, che ha invece sciaguratamente "liberalizzato" il contratto a tempo determinato estendendone il ricorso a tutti i casi in cui il datore di lavoro adduca generiche «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo».
La legge del '62 riposava su una logica ben diversa. Supponeva che il tempo indeterminato costituisse la forma normale del rapporto di lavoro dipendente; concepiva cioè il lavoro a termine come una eccezione; ed esigeva, quindi, che, per potervi fare ricorso, il datore di lavoro adducesse tassative motivazioni.
La nuova normativa ha messo in crisi questo impianto garantista, generando pesanti conseguenze negative per migliaia di lavoratori e sollevando, sul piano giuridico, gravi dubbi interpretativi. Una questione in particolare merita di essere al più presto risolta. Occorre stabilire in modo univoco (e auspicabilmente favorevole alla stabilità delle relazioni di lavoro) se il rapporto tra contratto a tempo indeterminato e contratto a tempo determinato possa essere tuttora ricondotto allo schema regola/eccezione (come in base alla legge 230); o se invece, complice la generale tendenza alla flessibilità, questo schema si sia ormai risolto in una vera e propria coesistenza di modelli contrattuali alternativi e simmetrici, cioè dotati di pari dignità.
La questione sorge anche per effetto della mancata riproposizione nel d. lgs. 368 di una previsione analoga a quella dell'art. 1 della legge 230: «Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate».
È chiaro che si tratta di una questione decisiva e tutta politica. E non è difficile intuire come dalla sua soluzione discendano una serie di effetti di prima grandezza, a cominciare dall'attribuzione al datore di lavoro piuttosto che al lavoratore dell'onere di provare le ragioni del ricorso al tempo determinato.
Non possiamo soffermarci oltre su questa materia. Ci limitiamo ad osservare come solo il recupero della logica sottesa alla legge del '62 renderebbe la legislazione italiana coerente con la normativa europea, per la quale i contratti a tempo indeterminato rappresentano «la forma comune dei rapporti di lavoro» perché «contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento». E come su questo terreno il governo e la maggioranza non debbano inventare nulla di nuovo, ma solo rispettare gli impegni assunti con l'elettorato. Il programma dell'Unione, quasi riproducendo la direttiva europea, puntualizza che il lavoro a tempo indeterminato deve tornare a costituire «la forma normale di occupazione» e che esso è il solo in grado di consentire ai lavoratori di «costruirsi una prospettiva di vita e di lavoro serena». Sarebbe davvero imperdonabile che parole tanto solenni rimanessero inascoltate dai loro stessi autori.
*Deputato Prc, commissione Lavoro
**Avvocato giuslavorista

Nessun commento: