14.3.06

Lavoro quante bugie... (l'Unità)

Lavoro quante bugie
di Nicola Cacace

Quanti sanno che per l'Istat è occupato «chi ha fatto almeno un’ ora di lavoro retribuito nella settimana di riferimento»? E che è disoccupato solo chi cerca concretamente lavoro? Quanti sanno che da tre anni il tasso di occupazione (quota di occupati sulla popolazione in età da lavoro 15-64 anni) cala continuamente in Italia, soprattutto a Sud, mentre cresce in Europa? Quanti sanno che in Italia, malgrado la grancassa sui successi occupazionali, gli unici a crescere veramente sono i cosiddetti «inattivi».

Cioè i cittadini 15-64 anni che non lavorano e non sono neanche considerati disoccupati perché, come spiega correttamente l'Istat, soprattutto a Sud «rinunciano ad intraprendere concrete azioni di ricerca di un lavoro che non c'è»?

Quanti sanno che la tanto declamata riduzione del tasso di disoccupazione italiano, dal 9,1% del 2001 al 7,7% del 2005 è verità statistica ma bugia socio-economica per il fenomeno della rinuncia a cercare un lavoro che non c'è. Perciò, come ben sanno gli esperti, il più corretto indicatore dello stato di salute dell'occupazione è il "tasso di occupazione", cioè la quota di cittadini in età di lavoro, occupata, quota che dal 2003 si riduce pur essendo ancora inferiore alla media europea.

Prima bugia: tra il 2001 ed il 2005 l'occupazione è cresciuta di quasi un milione e 100mila unità (da 21.468mila a 22.542mila), cioè del 5%. E' vero, ma si dà il caso che questo sia avvenuto quasi a parità del totale ore lavorate, come provato dal fatto che a fronte del milione di occupati in più, le "unità standard di lavoro", cioè gli equivalenti occupati a tempo pieno, sono rimasti quasi fermi intorno ai 24 milioni. E nel 2005 si sono addirittura ridotte di 102mila unità rispetto al 2004. Cioè lo stesso monte ore di lavoro è stato semplicemente spalmato su un numero più grande di lavoratori. Grazie alla frantumazione del lavoro, si è semplicemente realizzato uno scambio tra occupazione e salario, meglio tra occupazione precaria e sottosalario.

Seconda bugia: la disoccupazione tra il 2001 ed il 2005 si è ridotta dal 9,1% del 2001 al 7,7% del 2005 (III trimestre, ultimo dato disponibile). Verità statistica ma bugia socio-economica. Infatti come correttamente spiega l'Istat (commento alla III e ultima Rilevazione sulle forze di lavoro) "la disoccupazione cala per la rinuncia a intraprendere concrete azioni di ricerca di lavoro". La prova? Crescono gli inattivi 15-54 anni di ben 294mila unità tra 2005 e 2004. O gli italiani diventano "sfaticati" o i posti di lavoro non si cercano perché non ci sono.

Terza bugia: cresce il tasso di occupazione, cioè la quota di occupati sulla popolazione in età di lavoro (15-64 anni), dal 55,9% del 2001 al 57,4% del 2005 (III trimestre, ultimo dato noto).

Il tasso di occupazione è cresciuto leggermente dal 2001 al 2003, essendo misurato con gli occupati delle forze lavoro (quelli che «fanno almeno una ora di lavoro nella settimana di riferimento») grazie allo spalmamento delle ore di cui si è scritto. Ma dal 2003, esaurite le potenzialità dello spalmamento, il tasso di occupazione si riduce (2003 III trimestre 57,9%, 2004 III trimestre 57,7%, 2005 III trimestre 57,4%), con una riduzione elevata soprattutto nel Mezzogiorno, (2003 III trimestre 46,6%, 2005 III trimestre 45,7%). E intanto aumenta gravemente il divario Nord Sud, dal 2003 l'occupazione al Sud si riduceva anche in presenza di lievi aumenti dell'occupazione nazionale.

In conclusione l'aumento di occupazione di 1.100.000 unità dal 2001 al 2005 è dovuto per metà all'aumento di popolazione da regolarizzazione immigrati e per metà ad uno spalmamento del monte ore lavorate tra un numero maggiore di precari. Dal 2001 ad oggi c'è stato un chiaro trade off, scambio tra sottoccupazione e sottosalario, provato dal fatto che il monte salari (redditi da lavoro dipendente) sul Pil non è aumentato come avrebbe dovuto se l'aumento di occupazione fosse stato accompagnato da un parallelo aumento delle ore lavorate. Senza contare che dal 1993 al 2003, malgrado l'aumento di occupazione dipendente, il peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil si è ridotto di ben 4 punti, a vantaggio di profitti e soprattutto rendite esentasse.

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