Dal Manifesto del 15 marzo 2006
Una ricerca del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea sugli effetti della riforma
ROBERTO CICCARELLI
Qualche tempo fa circolava un libretto dal titolo spiritoso: «3+2=0». Lo zero stava a indicare l'esito poco felice della riforma universitaria - il triennio della laurea magistrale e il biennio di quella specialistica - approvata sette anni fa, denominata Berlinguer-Zecchino e entrata «a regime» nel 2001. Più cauto il giudizio di Pietro Tosi, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane: «Il 66 per cento degli studenti - scrive Tosi nella prefazione alla nuova ricerca sui laureati dell'università italiana del 2004 del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea pubblicata dal Mulino (pp. 221, • 17,50) - tende oggi a proseguire gli studi una volta conseguita la laurea. Un dato che avvalora la mia idea dell'aleatorietà dei percorsi triennali come percorsi professionalizzanti e invita indubbiamente ad un ripensamento nella loro concezione e nella loro realizzazione ». In sintesi: il tentativo di accorciare la carriera universitaria degli studenti italiani, perseguito dall'allora governo di centrosinistra e riproposto dall'attuale ministra di centro-destra Letizia Moratti, attraverso l'invenzione di un bivio tra il lavoro e lo studio all'altezza dei 21-22 anni, non funziona. La ricerca, condotta su 140 mila studenti di 35 atenei italiani, rispecchia l'esistenza di una realtà diffusissima: per trovare un lavoro bisogna avere la laurea specialistica, poi il master, magari una scuola di specializzazione. Risultato: l'età per conseguire la (prima) laurea si accorcia (da 28 a 27,6 anni), ma aumenta il tempo per arrivare ad una occupazione stabile (formalizzata cioè da un contratto a tempo determinato), mentre aumentano i costi della formazione a carico delle famiglie. Consolazione: i laureati sono aumentati dal 9,5 per cento del 2001 al 32,5 di tre anni dopo. Ma i 15 mila laureati interrogati aggiungono che, potendo tornare indietro, studierebbero ancora (il 98 per cento). E preferiscono il «vecchio» modello degli studi, forse non solo perché aveva tempi più rilassati ma anche perché offriva una formazione completa. Almeno nel settore umanistico, giuridico, psicologico e geo-biologico. Alla maggioranza dei laureati italiani risponde invece la soddisfazione degli ingegneri e degli architetti. Ricco di dati significativi è il capitolo della ricerca che analizza la situazione degli studentilavoratori. L'idea antica, da università di massa anni Settanta-Ottanta, che il lavoratore-studente fosse un soggetto sfavorito socialmente ma minoritario in un'università dove si faceva lo studente a tempo pieno viene rovesciata. Oggi è lo studente a lavorare. Tra il 1998 e il 2004 i lavoratori- studenti sono infatti diminuiti (dall'8,2 per cento al 7,7 per cento), ma sono aumentati gli studenti-lavoratori (dal 47 per cento al 68,2 per cento) sottoposti ad una serie infinita di tirocini, di stage e di lavori in nero, sottopagati e precari come avviene per la maggior parte dei laureati di primo (e di secondo) livello. Un'indagine citata nel capitolo dedicato alla comparazione con il sistema universitario tedesco ha dimostrato che i laureati italiani incontrano le maggiori difficoltà nell'ingresso al mercato del lavoro (peggio stanno solo gli spagnoli). Senza contare che tutti gli incentivi per favorire la mobilità europea degli studenti (il programma Erasmus) sono vanificati dalla cadenza imposta dall'obbligo di frequenza, dalla parcellizzazione degli esami, dal ritmo incalzante dei periodi di praticantato. Al punto da vanificare gli obiettivi della «Carta di Bologna» che miravano a promuovere la mobilità per motivi di studio e garantire l'occupazione dei laureati dei corsi di laurea brevi. Per quanto riguarda la capacità di attrarre studenti stranieri, a cui la ricerca dedica un altro interessante capitolo, il bilancio è catastrofico. Se infatti nel 2001-2002 il sistema di istruzione superiore francese era stato scelto da 2470 studenti statunitensi, 4770 sudamericani, 23 mila asiatici, nello stesso anno nelle università italiane gli iscritti statunitensi erano 209, i sudamericani 1.328, gli asiatici 2.950. Solo la Germania ha assorbito negli ultimi anni 10 mila studenti cinesi, 5 mila la Francia, l'Italia 124. Il rapporto AlmaLaurea sui laureati dimostra quindi gli esiti poco soddisfacenti della riforma universitaria, il dilagante precariato tra gli studenti dopo la laurea, la rinuncia ai periodi di studio all'estero, l'insoddisfazione della formazione base e la crescita della domanda di quella postlaurea (e quindi il mercato fiorente dei master a pagamento nelle università pubbliche e private). Ma allora quanto fa veramente 3+2?
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