21.3.06

Francia, Italia. La rabbia dei precari

dalla Stampa, 21 marzo 2006
FRANCIA, ITALIA
La rabbia dei precari

La rivolta dei giovani francesi contro una delle tante leggi che istituzionalizzano il lavoro precario è guardata, fuori dalla Francia, con un certo scettico distacco, come se la cosa non ci riguardasse. Avvenne così anche quando si sollevarono le banlieue, e quando la maggioranza dei francesi respinse, il 29 maggio, la Costituzione europea. Quella collera che si accumula senza fine e sembra un’acqua che non riesce più a stare dentro alcun vaso ci fa vedere una malattia molto francese, è vero, ma il malessere appartiene anche alla nostra cultura e tutti i Paesi senza crescita, con disoccupazione giovanile, con un sindacato debole, la conoscono e la soffrono.

È la collera di una generazione che per la prima volta dal dopoguerra non conosce l’ascesa sociale ma conosce una discesa. È la collera di chi vede spezzarsi uno dopo l’altro i fili che dovrebbero tener stretta la società: il filo che lega una generazione alla successiva, il filo che lega la persona al sindacato chiamato a rappresentarla, il filo che dovrebbe annodare le aspirazioni di tutti coloro che dell’agire economico sono protagonisti: lavoratori che producono, cittadini che consumano il prodotto e azionisti delle imprese produttive.

Tutti questi fili sono oggi rotti, siamo davanti a una rete che si sbrindella e non tiene più. Si fanno battaglie sui campioni nazionali nei settori industriali o bancari, ma dietro le battaglie ci sono nazioni che minacciano di disfarsi. La Francia con le sue immobilità è particolarmente colpita, ma i suoi mali somigliano spesso ai nostri o ne preannunciano di simili. Stessa questione del precariato come veleno che dissolve il legame sociale e il senso civico (nel programma di Prodi esso genera povertà di prospettive e insicurezza nei posti di lavoro). Stessa ira di una generazione che non identificandosi più nel lavoro fugge verso identità sostitutive (etniche, pseudoreligiose o distruttive-violente): una fuga tanto più facile in società ormai multietniche, multireligiose. Simile indebolirsi sindacale infine, e impotenza dello Stato.

È il motivo per cui vale la pena osservare quel che accade in Francia - non da oggi ma almeno dal 2002, quando il Fronte Nazionale sconfisse l’alternativa socialista a Chirac, al primo turno delle presidenziali, e nel duello non restarono in lizza che Chirac e l’estremismo xenofobo-nazionalista di Le Pen (nessun partito annovera tanti giovani quanti ne annovera Le Pen) - per capire il Paese che ci sta accanto e imparare dai suoi difetti, e dai suoi modi di reagire allo sfilacciarsi del contratto sociale.

C’è un’autentica patologia del sindacato, in Francia più acuta che altrove. I movimenti non sono stati iniziati né organizzati dalle centrali sindacali, che tendono anzi a esser sorprese, trascinate.

Ma è pur sempre il sindacato che si mette in testa ai cortei, che lancia ultimatum al potere, che infine negozia soluzioni con lo Stato. E qui veniamo al paradosso francese. È un Paese dove il sindacato è debolissimo, e di conseguenza la sua radicalità è massima; dove solo il 9 per cento dei salariati è sindacalizzato, e però la percentuale di lavoratori coperti da contratti collettivi è abnorme (il 95 per cento dei salariati, contro una media del 70 negli altri Paesi Ocse). Non è dunque il sindacato forte che frena l’adattamento delle economie europee, ma un sindacato ridotto a minoranza tanto più prepotente quanto più esigua.

I sindacati veramente forti, in Europa, sono quelli che devono tener conto di un numero di persone ben più vasto e vario: che hanno un potere non fondato solo sulla stipulazione dei contratti collettivi, ma sulla rappresentatività. Giacché è quest’ultima che dà diffuso senso di responsabilità. È la conclusione cui giungono coloro che in Francia criticano la sicumera con cui i governanti mitizzano un modello sociale ostinatamente incapace di dar frutti. In un libro di grande interesse, Jean-Baptiste de Foucauld, Denis Olivennes e Philippe Crouzet analizzano con severità la stasi nazionale: occorre che i sindacati tornino a essere rappresentativi non perché li si presume tali (sulla base di accordi politici postbellici), ma perché lavoratori e precari li eleggono optando per chiare maggioranze. Occorre metter fine al regolamento statalista del vivere sociale e alla pratica dei contratti collettivi nazionali, valevoli per l’intero Paese. Occorre una democrazia sociale riformata, che non dia potere a rappresentanze sindacali incapaci di negoziare perché elettoralmente minoritarie (Roger Fauroux e Bernard Spitz sono curatori del libro: Stato d’Urgenza - Riformare o abdicare, Laffont 2004).

Le proposte dei riformatori puntano a due compromessi essenziali, in Francia come da noi. Innanzitutto un compromesso fra generazioni. La collera dei giovani si capisce: è la collera di una generazione che vede i padri proteggere rendite e pensioni, senza occuparsi del degrado che colpisce i figli da cui pur tuttavia dipendono visto che saranno i figli a pagare le pensioni. Philippe Val, direttore e acuto editorialista del giornale satirico Charlie Hebdo, è impietoso con le generazioni mature e soprattutto con quella del baby boom: «Il sistema pensionistico è sempre più costoso, e grava sulle spalle di una generazione che conosce una precarietà professionale senza precedenti negli ultimi sessant’anni. (...) Per non farsi massacrare dai giovani, la società che invecchia mette consapevolmente a punto una serie di dispositivi tesi a mantenerli più a lungo possibile in uno stato di dipendenza, d’impotenza. Il Contratto per il Primo Impiego voluto dal premier De Villepin non è che la manifestazione di questo desiderio, sordo, di neutralizzare i giovani». La paura che hanno i più anziani è che s’inveri l’incubo descritto da Bioy Casares: nel Diario della Guerra del Maiale, in una città simile a Buenos Aires, i giovani uccidono per strada i vecchi, ritenendoli ormai inutili. Lo strappo generazionale avrà quest’approdo, se non verrà ricucito.

Il secondo compromesso è quello tra produttori, consumatori, azionisti. Sono tre volti della persona che andrebbero analizzati e corretti insieme, e che continuano a esser disgiunti. Ne scaturiscono non solo intollerabili tensioni fra questi tre modi d’esistere ma anche la perpetuazione del precariato, difficilmente eludibile a partire dal momento in cui la tensione, oltre che intollerabile, diventa distruttiva. Affinché una produzione sia salvaguardata bisogna che il lavoratore sia sicuro di sé, ma che lo sia anche il consumatore (altrimenti si rivolgerà a chi vende la merce a bassi prezzi, in India o Cina). E c’è bisogno che i profitti degli azionisti non crollino, se si vuol evitare una Confindustria del tutto sorda alla questione sociale, come in Francia, e la de-localizzazione delle aziende. Quel che ha imbestialito i giovani francesi non è la legge che prevede libertà completa di licenziare nei primi 24 mesi, fino all’età di 26 anni. Il precariato non comincia con Villepin, né sarà fermato dalla rivolta: è il vissuto di un’intera generazione da più di quindici anni (da noi l’allarme viene dalla stessa Banca d'Italia). Quel che imbestialisce i giovani è che nessuna misura viene programmata per uscire da tale condizione, ed è la tendenza a adottare decreti senza mai consultare sindacati, associazioni: una deficienza grave, perché accentua sia l’arroganza del padronato sia l’indebolirsi sindacale, e rende tanto più necessario l’intervento statalistico. Gli autori del libro di Fauroux-Spitz parlano di etica della discussione, ignorata o sprezzata. Qui è l’arcaismo, enorme, di Dominique de Villepin.

Pietro Ichino ha descritto con precisione - sul Corriere della Sera - la condizione dei precari permanenti. Ha denunciato l’apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono. Chi è più protetto è indifferente all’esclusione, e alla dipendenza-fragilità dei giovani. Trascura le esigenze dei consumatori, anche se ogni produttore è anche consumatore. È indifferente infine, secondo Philippe Val, a una minorità giovanile che si dilata: «Appena 30 anni fa si era giovani fra 16 e 25 anni. Oggi si è giovani fino a 35 anni». E questo significa: incapacità di alloggiarsi, di crescere figli, di concludere un’adolescenza sconfinata. Ichino ricorda che non basta parificare i lavori atipici e i regolari, perché la parificazione può far vittime tra i precari: cosa che i giovani temono, anche se manifestano. Dice che non bastano le leggi e il contratto collettivo, se non si riformano codice di lavoro e rappresentatività sindacale.

Il paradosso francese è nostro paradosso. Occorre un sindacato che sia rappresentativo localmente e nelle aziende, perché solo in tal modo diverrà responsabile. Occorre che i futuri pensionati (fra essi ci sono classi dirigenti e governanti) non cerchino sicurezze solo per sé ma anche per le generazioni che verranno e da cui dipenderanno. Occorre che i cittadini-produttori sappiano quel che inquieta il cittadino-consumatore. E occorre che i giovani prendano in mano la propria vita, ritrovino il rapporto che i nonni avevano con il lavoro inteso come necessità, e rifiutino non solo l’apartheid e il furto di futuro che è stato perpetrato contro di loro, ma l’eterno durare dell’irresponsabilità. Il precariato non è la soluzione dei mali: è il male stesso, anche se nato per aggirare l’ostacolo di contratti troppo rigidi e corporativi. Tutta la società dovrà rendersene conto: giovani e non, lavoratori e consumatori, classi dirigenti e governi.

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