UNIVERSITÀ
Un'intervista con Roberto Moscati sugli atenei italiani dopo la riforma voluta da Luigi Berlinguer entrata in vigore nel 2001 e gli interventi legislativi della ministra Letizia Moratti
Diffuso precariato, parcellizzazione del sapere e divisione della formazione superiore tra pochi centri d'eccellenza e molte università di serie b incentrate su una offerta didattica di bassa qualità
GIGI ROGGERO
Sull'università esiste una reale anomalia italiana. Ma non si tratta della sua «arretratezza», come potrebbero arguire i critici dell'attuale ministra - salvo poi plaudire a un probabile venturo morattismo senza Moratti. Dal punto di vista istituzionale, anzi, la riforma disegnata da Berlinguer, puntellata da Zecchino e ripresa dal centro-destra è una punta «avanzata » (in quanto imposta dall'alto) del Bologna process, ossia della costruzione di uno spazio europeo dell'istruzione superiore incardinato sul cosiddetto «3+2» (laurea triennale, e due anni per la specialistica) e sui crediti formativi. La reale anomalia è invece rappresentata dai movimenti degli studenti e dei ricercatori precari che hanno messo radicalmente in discussione non solo l'architettura formale dell'università riformata, ma anche i nodi dirimenti della didattica, della produzione dei saperi, della crescente precarietà nel rapporto di lavoro e del mercato della formazione. Riluttanti, cioè, ad essere considerati stakeholder, cioè protagonisti e al tempo stesso oggetti passivi della governance formativa. E tuttavia nulla si può capire delle trasformazioni dell'università italiana se non collocandole all'interno delle tendenze europee che riguardano il ruolo dei saperi nella cosiddetta knowledge society. Da qui inizia l'intervista con RobertoMoscati, docente di Sociologia all'Università Bicocca di Milano, a suo tempo membro della commissione Martinotti, che elaborò le linee guida della riforma Berlinguer. «I maggiori punti di contatto tra i vari sistemi europei di formazione universitaria risiedono nel malumore dei docenti, dei ricercatori e degli studenti. per quanto riguarda i docenti e i ricercatori, lo scontento risiede nel disequilibrio tra responsabilità, incarichi didattici e non, retribuzioni e aspettative. A livello europeo, è in atto una riduzione degli spazi della ricerca, mentre il carico didattico aumenta (in Italia siamo ancora a livelli bassi rispetto alle medie europee). Sta inoltre cambiando la figura del docente universitario. Per quanto riguarda l'Italia, la legge 382 del 1980 sul riordinamento della docenza universitaria stabiliva che i ricercatori non dovevano fare didattica, se non occasionalmente. Era poi introdotta la figura del professore a contratto, ma erano pochi, di prestigio, ben pagati. Adesso sono diventati molti, malpagati, e non sempre di prestigio. Ordinari e associati scaricano la didattica su altri, mettendo in difficoltà l'anello debole della catena, cioè i ricercatori, che talvolta ritengono l'attività didattica un'occasione di prestigio. La cosa si sta allargando ai dottorandi e al post-dottorato. Tutto questo è avvenuto e avviene senza una regolamentazione. Si riproduce cioè la prevaricazione dei docenti più forti su quelli più giovani e deboli. Infine, molte delle figure «atipiche» nella ricerca e nell'insegnamento sono pagate pochissimo o nulla, mentre è pesante il carico di lavoro. È possibile ipotizzare che la frammentazione dei corsi e i saperi a rapida obsolescenza favoriti dalla riforma Berlinguer richiedano strutturalmente una forza-lavoro «usa e getta»? La diffusione dell'uso del precariato è cominciata prima della riforma Berlinguer. È un fenomeno generalizzato, indotto da molti aspetti combinati e riassumibile nello slogan della knowledge society. La «società della conoscenza» ha infatti bisogno di uomini e donne con un'istruzione superiore, anche se divisi in strati sequenziali: molti al primo livello, una parte minore al secondo, una parte ancora minore al terzo. Cosa che peraltro esiste da almeno cinquant'anni negli Stati Uniti. Tutto ciò ha però determinato un cambiamento sia qualitativo che quantitativo nell'« utenza». Anche se molti docenti faticano ad accettarlo, l'università di élite che esisteva fino al '68 non esiste più. D'altra parte, i rettori sostengono che obiettivo dell'università è avere il maggior numero di studenti, alimentando così la competizione tra atenei attraverso la diversificazione dell'offerta formativa o attivando corsi «alla moda», come Scienze della comunicazione. L'obiettivo dell'università non è infatti la formazione di una élite, bensì la formazione del cittadino. Da qui la necessità di modificare il rapporto con gli studenti, che hanno provenienze sociali, bagagli culturali e capitali sociali tra loro molto differenziati. Di fronte a questa situazione c'è stata una proliferazione dell'offerta didattica, ma di bassa qualità. Bisognerebbe, invece, aumentare drasticamente il numero e la qualità del personale docente, senza però alimentare la crescita di figure precarie. La legge voluta da LetiziaMoratti non fa altro che formalizzare il precariato già presente nell'università. Sono convinto che una delle priorità dell'università sia la continuità nell'attività di ricerca, attraverso una trasparenza dell'accesso alla carriera università. Potremmo dire che è avvenuto un passaggio da criteri selettivi di esclusione a criteri di inclusione differenziale. Nel mercato della formazione, ogni singolo compone il proprio portfolio biografico accumulando crediti attraverso i differenti livelli dei sistemi di istruzione superiore. Nell'applicazione della riforma, quanto questo processo di inclusione differenziale si è accompagnato ed ha prodotto una dequalificazione dei saperi? Il precariato universitario che fa didattica è diviso in personale giovane che mira a fare la carriera e ricercatori appena entrati da un lato, e dall'altro «personale avventizi»o, i famosi esperti che ora vengono reclutati in quantità rilevante. Il tipo di insegnamento che gli «esperti» forniscono è di qualità spesso discutibile. Chi è un buon giornalista o un buon manager non è detto che sappia insegnare. Diverso è il discorso relativo ai giovani ricercatori. In molti casi la voglia e la disponibilità di insegnare da parte loro si traduce in un'efficacia ed efficienza maggiori della media. La riforma ha però evidenziato un problema latente. Tra la necessità di una formazione diffusa e la formazione di ricercatori di alta qualificazione, sta infatti emergendo una proposta: fare due tipi di università, come già accade negli Stati Uniti, dove sono presenti research university e università che fanno solo didattica. Quest'ultime forniscono una formazione di serie B, mentre l'accesso ai cosiddetti «centri d'eccellenza» è prerogativa della futura classe dirigente. Etuttavia credo vada pensata un'alternativa sia all'idea gentiliana dell'istruzione umanistica universale che all'attuale dequalificazione e frammentazione dei saperi. Le che ne pensa? La riforma universitaria è stata interpretata da un punto di vista che potremmo definire ingegneristico. Tutti gli atenei si sono affannati a costruire i cosiddetti percorsi formativi, alimentando la frammentazione dei saperi. C'è stato un ottimismo della volontà assolutamente esagerato. Non sono state cioè discusse le ragioni per cui si faceva una riforma che stabiliva che dopo tre anni di università lo studente era pronto per entrare nel mercato del lavoro, ma che poteva poi ritornare all'università per completare la sua specializzazione. Se l'obiettivo è la formazione permanente, uno studente deve accettare che l'apprendimento di una disciplina posso avvenire in fasi diverse della sua vita. Inoltre, la riforma aveva bisogno di una sperimentazione e di una verifica della sua efficacia. La Germania, ad esempio, ha stabilito che valuterà in 10 anni l'efficacia della riforma basata sulla cosiddetta «Carta di Bologna». All'oggi si aggirano intorno al 30% le università riformate in Germania.... La commissione Martinotti aveva avvertito Berlinguer che non si poteva realizzare la riforma in qualche mese. La risposta è stata: o facciamo questa riforma subito, o non passerà mai. Infatti, non è stata nemmeno discussa in parlamento, è passata di soppiatto nelle maglie della finanziaria del '98, con un lavoro sotterraneo di Guerzoni con i parlamentari affinché accettassero qualcosa che la maggior parte non aveva nemmeno capito. Questo è uno dei limiti politici del nostro paese: le riforme (di destra, di centro o di sinistra) non vengono mai pensate in prospettiva, ma sempre all'interno dello spazio della legislatura. Non c'è stata dunque l'occasione per riflettere su come cambiare i contenuti dei processi formativi. Tra l'altro era una riforma a costo zero e le facoltà, non potendo reclutare i docenti che le servivano, hanno ritagliato i percorsi in base alle risorse interne esistenti. Io non dico di ritornare alla situazione precedente, ma un ripensamento di fondo è tuttavia necessario. Il nodo di fondo della riforma sembra articolarsi intorno alla cosiddetta «mission» dell'università. Nel momento in cui assistiamo alla moltiplicazione delle agenzie che compongono il mercato della formazione, il problema del sistema universitario è come accreditarsi al suo interno in quanto attore competitivo. In questa chiave si possono leggere le diverse «visioni» di alcuni dei soggetti della governance dell'istruzione superiore (Crui, Cun, ministeri passati e presenti). Visioni differenti, certo, ma accumunate dal sostegno verso un processo di aziendalizzazione dell'università. Non crede? La Moratti non aveva un'idea alternativa per buttare amare la riforma; la tentazione l'ha avuta, ma c'è stata una sollevazione del mondo accademico. La Crui (la conferenza dei rettori, n.d.r.) sta cercando di elaborare una proposta sulla mission dell'università, che le consenta di giocare un ruolo di mediatore nei confronti del Ministero in sostituzione del Cun (il consiglio universitario nazionale, n.d.r.). L'università deve aprirsi al mondo esterno assumendo ruoli non tradizionali, come ad esempio nel rapporto con il territorio e con i committenti. Io sono del parere, maturato nella mia esperienza negli Stati Uniti, che un'università tanto più è forte come istituzione tanto più potere contrattuale può esprimere. Chi sono i cosiddetti «stakeholders» della governance universitaria? Gli stakeholders possono essere tutti. Sono gli studenti, di cui comprendere le caratteristiche e le richieste. Sono gli gli enti pubblici locali, gli organismi spontanei, i comitati di quartiere, le aggregazioni territoriali. Credo che l'università possa mettersi sul mercato offrendo certi servizi. Ad esempio, se ben pagate, può offrire alla tal azienda farmaceutica alcune conoscenze di ricerca di base, a patto però che i risultati di una ricerca possano essere pubblicati anche quando i committenti privati vogliono mettere sotto copyright o brevettarli. Quanto i cambiamenti che lei ritiene necessari della riforma sono legati al processo di Bologna? In previsione di un possibile cambio di governo, qual è l'università che sarà proposta e in cosa si differenzierà da quella attuale? Credo che non avremo grandi cambiamenti, bensì un insieme di aggiustamenti. Uno riguarda lo stato giuridico della docenza, un nodo molto sentito dal corpo docente. Sarà inoltre affrontato il problema dell'aumento dei finanziamenti alla ricerca scientifica, ma è una questione che riguarderà il Cnr. Se vincerà il centrosinistra, il futuro governo cercherà infine di sviluppare una visione europea dell'università. Va anche detto che gli accordi della Sorbona, propedeutici alla conferenza di Bologna, sono stati utilizzati da Berlinguer come legittimazione della sua riforma. Secondo me sono stati - nonostante altri errori - una trovata furbissima. Visto che sono stati firmati da quattro paesi «forti» (Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna), gli altri hanno capito che conveniva aggregarsi. In Italia sono stati poi usati come giustificazione della riforma stessa. Non avremo mai un sistema unico di istruzione superiore in Europa, però esistono delle possibilità di cooperazione maggiori, che passano ad esempio per la diffusione del diploma supplement per avere carte di identità in un futuro mercato del lavoro intellettuale europeo. È molto più facile tenersi fuori dalla Tav che dal processo di Bologna. D'altro canto lo spazio europeo, prima che dai disegni istituzionali, è già stato aperto dalla circolazione degli studenti e dei ricercatori... Infatti. E tuttavia, non credo che cambierà molto sul piano strutturale, anche perché ormai il processo è avviato. Il problema sarà di avere un vero sistema di valutazione, con una entità autonoma non dipendente dal Ministero che collabori con le università. D'altra parte, se non c'è più un sistema napoleonico e c'è l'autonomia degli atenei, qualcosa bisogna fare, a meno che ci si voglia affidare al mercato totale e allo sbando.
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