1.4.06

La generazione della paura

dall'unità - 1 aprile 2006

di Nicola Cacace

Francia e Italia

Oggi nessuno è contro la «via alta» alla flessibilità basata su mobilità e sicurezza sociale. I giovani e gli stessi sindacati sanno che mobilità e flessibilità sono componenti essenziali della competitività nell’economia della conoscenza ma rifiutano la via bassa alla flessibilità, basata solo sui costi. La via alta è quella seguita dai Paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia) e dall’Olanda, la via bassa è quella basata su bassi salari, bassa innovazione e svalutazioni competitive, per troppi anni seguita in Italia. Creatività ed innovazione sono realizzate da lavoratori motivati, disponibili alla mobilità, qualificati e formati in continuazione, non da lavoratori «usa e getta».

Anche l’Italia ha bisogno di lavoro qualificato e flessibile per risolvere due problemi di politica industriale, sollevati recentemente dalla Confindustria a Vicenza «modificare struttura dimensionale delle imprese e modello di specializzazione produttiva».
Per questi obiettivi è necessaria una mobilità del lavoro utile per impresa e lavoratore, perseguibile con politiche di «flexsecurity», cioè «flessibilità + sicurezza + formazione», da anni raccomandate in ambito Ue ed Ocse. Politiche di flessibilità senza sicurezza sono fallimentari, non solo perché sfociano in precarietà permanente quanto perché tendono a trasferire tutto il rischio d’impresa dall’imprenditore al lavoratore dipendente, cosa economicamente ed eticamente scorretta in un capitalismo avanzato e moderno dove l’utile è il premio del rischio d’impresa. E il fatto che da cinque anni la produttività italiana non cresce, dipende in modo non secondario dalle scarse motivazioni a innovare e migliorarsi indotte da una precarietà senza scampo per i giovani. Come testimoniato recentemente anche da Banca d’Italia, il 50% dei giovani neoassunti oggi è precario e quel che è peggio, senza alcuna vista verso l’uscita del tunnel ed il futuro. Anche per questo abbiamo il triste primato mondiale di bassa natalità, fattore non secondario della nostra crisi.
Perciò temo che le agitazioni francesi di oggi contro la «Cpe», il contratto di primo impiego, come quelle italiane di ieri contro l’articolo 18 e molti aspetti inaccettabili della legge 30, non sono la semplice reazione a modifiche contrattuali, tutto sommato marginali nella sostanza (contratti a termine di apprendistato, formazione e lavoro senza garanzia di lavoro stabile, esistono da tempo in Francia prima della Cpe come in Italia prima delle proposte di abolizione temporanea dell’articolo 18) ma sono qualcosa di molto più profondo. Sono la spia di un malessere che riflette le paure di una generazione, la prima che sta peggio dei genitori, la prima a vivere disuguaglianze economiche crescenti, la prima con poche certezze di futuro e che incolpa la politica, la globalizzazione, i furbetti che si arricchiscono esentasse, la concorrenza e, appunto, l’articolo 18 e la Cpe. Sottovalutare o derubricare queste paure sarebbe errore grave della classe dirigente.
Il modello scandinavo di «flexsecurity» è ispirato alla distruzione creatrice di Shumpeter più che a Keynes ed ai sostegni della domanda (si incentiva la mobilità del lavoro verso aziende e settori in crescita senza aiutare aziende e settori maturi), è vincente perché capace di trasformare, in alcuni decenni, un costoso «Welfare State» in un economicamente sopportabile «Workfare State» (un lavoro per tutti e tutti devono lavorare) e per gli eccellenti risultati socio-economici realizzati sul medio-lungo periodo dai cinque Paesi del Nord: più alta crescita del Pil (3% medio nel decennio, pari a quello americano, quasi il triplo di quello italiano che è dell’1,2%), tassi di occupazione del 75% - quindi superiori a quelli americani (65%) e italiani (57%) -, mobilità record del lavoro (in Danimarca ogni anno cambiano lavoro il 20% degli occupati, 10% negli Usa, 5% in Europa). E, record non banale, i Paesi con la più alta pressione fiscale (50% del Pil, contro il 43% in Europa e il 30% negli Usa) attraggono più «investimenti diretti esteri» di tutti: il 25% del totale investimenti fissi nazionali, contro il 12% degli Usa ed il 2% dell’Italia.
Nei Paesi del Nord si pagano alte indennità di disoccupazione (dal 90% al 70% del salario) ma con obbligo alla formazione continua per la ricollocazione ed all’accettazione di lavori «anche inferiori a status e salario precedente» dopo cento giorni di disoccupazione retribuita. Gli avversari del modello scandinavo, fautori del modello «americano» (che incentiva l’innovazione e la mobilità individuale, senza strumenti collettivi che ne socializzino i costi) di fronte alla forza dei dati economici obbiettano che «trattasi di piccoli Paesi». È vero, trattasi di piccoli Paesi che hanno il triplo delle imprese multinazionali italiane. Sbaglia chi derubrica le «paure generazionali» dei giovani italiani e francesi al rifiuto della flessibilità, come sbaglia Pietro Ichino (Corriere della Sera del 27 marzo) quando le attribuisce al rifiuto pregiudiziale verso governi di destra (articolo 18 in Italia o Cpe in Francia rispetto a provvedimenti accettati come il pacchetto Treu). Forse vi è una componente politica di rifiuto verso provvedimenti varati da governi di destra, alla luce dei loro programmi in materia; ma quel che sicuramente esiste, è un rifiuto fermo e deciso verso la via bassa alla competitività, già condannata dalla recente storia economica.

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