6.4.06

Oreste Scalzone: la rivolta francese non è precaria

da Liberazione (5 aprile 2006)

Ma la rivolta non è precaria
Oreste Scalzone

Del sommovimento sociale venuto alla ribalta in Francia si sente dire spesso “a destra e a manca” che... in fondo, si tratta «strettamente di studenti» (dunque di “ceto medio”) che si battono per conservare... no, anzi, per ritornare a un modello di “vita attiva” (di... vita), di “mondo-del-lavoro” (di... mondo) che sia quello delle “sicurezze”, della sicurezza del posto di lavoro fisso, del lavoro-a-vita “dei loro padri” (o non piuttosto, nonni?), con tutto quello che a ciò va insieme, che questo sottende, implica, comporta...

Ceto medio (che anche la lingua francese, così ricca, è costretta a dire classe moyenne) è espressione di conio sociologico, di diffusione giornalistico-descrittiva, teoricamente debole, scadente: in qualche modo, uno pseudo-concetto. Che lo usino Opinion-makers, ideologhi “del Padrone”, nel senso di propagandisti della vulgata apologetica del sistema integrato tecno-capitalistico-statale, è “logico”. Che facciano loro eco pensosi maîtres-à-penser della cultura “alta”, saggistica, accademica, non ci stupisce più di tanto. Che, in particolare, pubblici e pubbliche pens-at[t]ori e pens-a[t]trici di ascendenza “sessantottesca”, anche non-rinnegata, si lancino a sostenere simili castronerie, è rivelatore di un denominatore comune che - nelle diverse forme, intenzioni, motivazioni probabili o credute, auto-attribuitesi - si risolve in una triste e sindrome di orrore per tutto ciò che potrebbe intervenire a “rimettere in questione” vita, “routine”, sicurezze, bilanci.

Certo, all’inizio di questo movimento che ha preso spunto dalla resistenza, dal No al Cpe, la cecità è stata minore. Si sarebbe dovuto esser davvero intellettualmente ciechi, per non vedere che sotto, nelle viscere sociali, esistenziali, nella fibra stessa delle passioni, des affectes, nell’energia, nella scommessa, nel gioco, la sollevazione che aveva incendiato territori fisici ed esistenziali, topografie e psico-topografie, a partire dall’autunno scorso, era una “corrente”, un fattore di tellurismo all’opera.

Non foss’altro che per un elemento “visibile” a occhio nudo: nell’aspetto anche - come ha mostrato Henri Lèfebvre, come hanno mostrato i situazionisti a proposito della Comune - di festa dei mo(vi) menti insurrezionali (“il 18 marzo - giorno dell’inizio dell’insurrezione della Comune di Parigi - sarà sempre e dovunque la più gran festa del proletariato”), in quegli “strani studenti”, giovani e giovanissimi “soggetti schizometropolitani” comunque proletarizzantisi nella lotta, nella coalescenza di motivazioni singolari, diverse che trovano una comunanza; in quelle loro cariche battenti, che “snidavano” la testuggine dei Crs (i celerini della Rèpublique) per alla fine farsi inseguire, un po’ (anche) come si fa col toro alla festa, la fiesta mobile di Pamplona... non era chiaro che ci fosse anche l’ebbrezza liberatoria di un’emulazione riuscita?

Stavolta, la cosa in qualche modo appariva anche nei commenti “saputi” degli scienziati sociali, nelle loro versioni divulgative e auto-divulgative. Ma è bastato l’ovvio presentarsi di elementi di “Babele dei linguaggi”, lo sgranarsi diversificato di comportamenti anche diversi, per far ripartire la macchina del crimine continuato del pensiero-propaganda, propagandistico e auto-propagandistico. La tentazione dello schema manicheo, gli stereotipi e le malizie corrispondenti, la speranza nelle divisioni, il vecchio lurido gioco del “divide et impera” della ricerca del tradimento, della delazione e della paranoia del tradimento è un classico.

Ma nessuno di quanti si sono impressionati, e hanno rapidamente subìto e introiettato questa “rappresentazione”, cominciando a focalizzarsi, come minimo sull’incomunicabilità tra “studenti-studenti” e “pègre ghettizzata di banlieue” (nel caso dei più ”addetti ai lavori“, la riedizione del “classi laboriose/classi pericolose“, “lavoratori/lumpen”...), nessuno si è accorto che la cosa sostanzialmente non è passata? Nessuno si è accorto, o ha fatto mostra di accorgersi, che, non solo quella che chiamano “la casse” (termine di sfasciacarrozze), ma neanche alcuni episodi estremi che lo scoperchiamento della fenomenologia sociale rivela, porta alla ribalta, fa emergere allo scoperto, in piena luce, hanno scosso più di tanto il movimento, né hanno fatto flettere la freccia ascendente della estensione e radicalizzazione?

Si pensi alla vicenda di quei gruppi di neo-dépouilleurs che - quantomeno ostentando una estraneità vertiginosa rispetto a “tutto”, non ultimo a scontro con la polizia, e “scontristi”, “casse” e “casseurs” - hanno cominciato a replicare un comportamento apparso tempo fa ad una manifestazione di studenti: approfittare del buco, del black-out, della sospensione della sorveglianza, del controllo “del territorio”, e il presentarsi di una “jungla mobile” in principio non ostile, per “gettarsi su tutto quello che si muove”, in primis dei e delle manifestanti dall’aspetto più “domestico”, con un comportamento di razzìa, come se fosse ricondotto ad un sottobasamento “etologico”.

Ebbene: malgrado il carattere effettualmente odioso che la cosa può assumere; malgrado la vertigine che esso può dare, non c’è stato panico, paura, ripiegamento legalistico, diffusione di discorsi querulenti, rifugio sotto le gonne della “buona società civilizzata” e dello Stato... Proprio in forza di un comportamento da apparato parapoliziesco di apparati sindacali, nella fattispecie la Cgt, che, prendendo spunto da problemi e difficoltà reali, si erano prodotti in un comportamento che aveva in corpo un germe del teppismo da linciatori nella variante “rosso-staliniana”, non già interponendosi ed eventualmente anche bastonando per dissuadere severamente chicchessia da tali comportamenti, ma procedendo alla maniera della polizia quando scatena la “caccia”, sulla base di una presunzione semplicemente fondata su criteri tipologici si è poi “scoperta” una dimensione difficilmente utilizzabile per demonizzazioni: l’età media di questi “dépouilleurs” essendosi rivelata più al disotto che al di sopra dei quattordici anni, la patata bollente torna alla “società organizzata”, come sempre in questi casi, dalla Sierra Leone a Scampìa...

E che dire della inedita tenuta di un fronte sindacale che ostenta compattezza, intrattabilità, resistenza in un No senza subordinate, decisione di andare fino in fondo nella volontà di strappare il puro e semplice ritiro del Cpe, e questo in presenza di segni chiarissimi di una crisi di “regime” più che di governo, nel contesto di un’impressione più generale - non solo francese - di una deliquescenza del “Politico” di una obsolescenza della sovranità degli Stati-nazione (con una cessione di sovranità di fatto, per un verso in direzione del Frankenstein commerciale-finanziario-monetario-penale che è l’Unione Europea; ma soprattutto verso gli istituti dell’“amministrativizzazione globalizzata della Decisione”).

Conosciamo la natura di sindacalismo e sindacati - peraltro sempre più sussunti in “concertazioni”, ruoli “nazional-popolari”, istituzionali, interni all’esercizio delle diverse funzioni della gouvernance: se dunque va come va, è che non trovano - neanche la Cfdt, la Cgt o i più moderati e spesso “collaterali” ai Governi, il modo e l’occasione per sfilarsi senza pagare un prezzo altissimo, data la potenza del movimento.

Allora, movimento “di studenti” o “di ceti medi”, come estrazione e come modi di vita, ruoli sociali, mentalità, autorappresentazione? Ma di che si parla? Di “estrazione sociale”, quella per cui Kropotkin sarebbe un principe, Marx un figlio di borghesi, e cosi via con volgarità degne di un... Giovanardi? Di “sogno illusorio, nostalgico”, di una vita di posto di lavoro garantito, una vita di lavoro a vita, una vita di lavoro, stabile, full time, full-life, senza scampo, e addio al “lavorare tutti per lavorare meno”, alla critica del lavoro, e tutto il resto?

Su questo misto di meccanicismo e sociologismo si ripiega? Ci manca solo - faccio un’iperbole - che persino chi ha tanto parlato di “capitalismo cognitivo”, di “produzione immateriale”, di “General Intellect”, di “precariato intellettuale”, rischi di esser risucchiato in un misto di determinismo e moralismo da “passioni tristi”...

Ci voleva Alex Honneth, successore in cattedra di Habermas alla Scuola di Francoforte, per formulare (sul supplemento di Le Monde dello scorso fine settimana) la rilevazione evidente secondo cui «la rivolta delle banlieues ha giocato un ruolo decisivo nel movimento contro il Cpe», permettendo agli studenti «di prendere coscienza che possono ancora cambiare le cose»
Tempus fugit...., dunque qualche conclusione provvisoria, con qualche traccia di proposta, brutalmente semplificata. Vorrei (e spero di poter dire, non troppo in pochi, vorremmo), dire: ma come si fa a non vedere che - dopo almeno un quarto di secolo in cui il modello di accumulazione e l’estrazione mondiale del plusvalore sociale, con le sue forme di lavoro sommerso, disperso, dissimulato, “informale”, non riconoscibile, con l’incedere sempre più veloce di segmentazioni e “atomizzazioni”, e con la conseguenza di una difficoltà estrema a dar corpo ad una cooperazione antagonistica; dopo effetti di delocalizzazioni, disinvestimento, importazione di esercito salariale di riserva, per gli effetti della vertiginosa accelerazione della “mondializzazione reale”, nella fattispecie del mercato della forza-lavoro; mentre la forma la più elementare di lotta di classe si trovava come interdetta alla radice; la lotta di classe, anzi la guerra (anche nei suoi risvolti di economia criminogeno/penale), veniva condotta da una parte sola: solo dall’alto in basso, come se fosse consentita la serrata, ma interdetto, e anche, peggio, impossibile, lo sciopero - ecco, come si fa a non vedere che per la prima volta, qui, ora si ripropone e ripresenta una forma di confluenza, di coalescenza, una forma «massificata» che ricompone le moltitudini diverse attorno ad un denominatore comune generale, trasversale a tutte le diversità?

C’è il luogo, ci sono le forme, c’è la sincronia: io credo che la svolta irreversibile consista nel fatto che è finito un ciclo che veniva, dagli uni vagheggiato, dal nostro bordo lamentato, o tentato volontaristicamente aggirare ed esorcizzare: quello dominato dall’idea e dalla realtà che la vita era divenuta una variabile dipendente delle Razionalità tecno-capitalistico-statali, e le immense piaghe di disastri eco-sociali, mentali, antropologici, erano degli ineliminabili “danni collaterali”. Puo’ cominciare ad essere fi-ni-ta. Chi (come i vertici del Centro-sinistra in Italia) sembra non voler vedere che leggi 30, Treu, Cpe, etc. sono semplici variazioni su tema, e che è il tema, lo spartito, tanto per cominciare, che sono oggi rifiutati e verranno travolti, credo incontrerà sorprese amare.

A noi interessa una radicalizzazione allargata, potente, capace di recare in sé, anche nei passaggi più minuti, locali, l’idea direttrice di una comune autonomizzazione come unica forma adeguata a tradurre la “potenza di vita” e anche a permettere una sfida e una scommessa rispetto ad una tendenza che, altrimenti, sembra la corsa folle all’annichilimento del treno di “Cassandra crossing”. Questo ci interessa: qualcosa a cui sta stretto lo stesso termine “rivoluzione”. Proprio per questo, non ci interessa guardarci allo specchio delle brame per sentirci dire che siamo noi i più puri, sovversivi, e compagnia cantando. Pensiamo che bisognerebbe - accanto all’estensione, radicalizzazione, aumento d’intensità del movimento, per esempio in questa forma dei blocchi stradali e ferroviari come forma di interruzione, sabotaggio del funzionamento meccanico ordinario, a mezzo di uno “sciopero della cittadinanza” ricorrente, prodotto e riprodotto incessantemente -provare due cose.

In primo luogo, la messa in opera di un funzionamento autonomo di una comunità attiva, sul terreno del sapere, nei licei e nelle Università (reinventando ben altro che le conosciute autogestioni.


In secondo luogo provare - perchè no? (si fa “individualmente, ma non si dice ”coralmente”?) a mettere in discussione la gestazione di “Fiere della merce-forza lavoro, precaria, migrante, informale, instabile’’, che contendano terreno alla messa in concorrenza individuale, o per strati, micro-corporazioni, lobby…Braccio di ferro esplicito, dichiarato: val la pena di aprire una discussione a tutto campo?

Mi faccio l’avvocato del diavolo da me; mi assale il morso del dubbio, dello scrupolo: non ricadremo nella dannazione “dualistica” del sindacalismo, nella schisi dell’autocontraddizione fra il rifiuto, la contestazione radicale, la sovversività che non puo’ non sapere di guerra?

Ma che, questa scissione atroce non la viviamo ogni giorno? Quello che andrebbe tentato, sarebbe una sperimentazione autonoma dell’articolazione: diciamo, fra terreno del sopravvivere e della disperata potenza tendente a vivere; entrambi su un piano d’immanenza.

Categorie:

Nessun commento: