Lavoro. Nella Pubblica Amministrazione si moltiplicano i contratti a termine, i cocopro, i subappalti, le esternalizzazioni più varie e fantasiose, i tirocinii e gli stage non pagati
Ernestina Di Felice
Sulla colpevole e interessata mistificazione creata attorno al tema flessibilità/precarietà si è costruita in Italia una politica che nel giro di pochi anni è riuscita ad azzerare diritti faticosamente conquistati nel corso di un secolo.
L’idea che i problemi di produttività legati a un’economia globalizzata potessero essere risolti con la flessibilità del lavoro si è affermata abbastanza agevolmente, soprattutto in previsione di una crescita dell’occupazione.
Il fatto è, però, che la flessibilità si è tradotta quasi immediatamente in precarietà, che è tutt’altra cosa.
La flessibilità significa versatilità, capacità di rinnovarsi, di ricollocarsi in un mondo del lavoro in continuo cambiamento, di adattarsi anche nei tempi e nei modi alle esigenze produttive; è capacità di autoformazione continua; spesso implica alta professionalità, che dovrebbe essere pagata di più, non di meno.
La precarietà, invece, è lavoro instabile, senza regole e senza diritti; ha come fondamento che il lavoro sia una merce, del tutto sganciata dalla persona, che può essere “somministrata”, affittata, erogata a tempo, e, naturalmente, sottopagata. La precarietà implica discontinuità di reddito, trattamento previdenziale ridotto o nullo, possibilità di abusi, mancato riconoscimento dell’esperienza, degli studi fatti, della professionalità raggiunta. La precarietà è negazione della libertà di pensare al proprio futuro.
E’ davvero grave che in pochi anni, mestando nel torbido equivoco che confonde la flessibilità con la precarietà, si sia giunti a penalizzare un’intera generazione di giovani (e non solo!), che siano stati mortificati i sacrifici e le speranze di milioni di famiglie costrette a vivere, per la prima volta la paradossale situazione di anziani che devono dare aiuto ai giovani (e non viceversa).
Ed è grave che non solo le aziende private, ma anche le Amministrazioni pubbliche usino massicciamente - per necessità o per scelta - il lavoro precario: non solo nelle aree dov’è stato sempre tradizionalmente presente, nella scuola e nelle Università, ma anche nella Sanità, negli Enti locali, nelle aziende pubbliche, dove si moltiplicano i contratti a termine, i cocopro, i subappalti, le esternalizzazioni più varie e fantasiose, i tirocinii e gli stage non pagati…
Oggi, ad esempio, la legge finanziaria impone agli Enti locali la copertura dei posti del “turn over” solo per il venticinque per cento.
Qual è la logica a cui corrisponde una legge che di fatto impedisce di dare stabilità al lavoro di giovani che – magari con lauree, specializzazioni e master - tengono da anni letteralmente in piedi degli uffici e svolgono funzioni di primaria importanza?
Per quale ragione si deve negare l’assunzione persino ai vincitori di concorso e si sfrutta il lavoro precario mettendo in atto una sperequazione tra funzioni ufficiali e compiti effettivamente svolti?
Perché si chiede ai giovani di aprire partite IVA fittizie per far loro svolgere lavori che non sono a progetto, ma sono a tutti gli effetti lavoro dipendente?
E perché nel frattempo si consente – in qualche caso si impone - agli Enti di esternalizzare i servizi, a prescindere dalla qualità dei risultati e dalla economicità delle scelte, che non vengono poi verificate?
Non è con lo sfruttamento del lavoro dei giovani, né con questa logica pseudo aziendalistica - visto che l’efficienza e la diminuzione dei costi sono tutte da dimostrare - che può essere assicurata la produttività dei servizi pubblici. Sono necessari invece il superamento del precariato e il ritorno ad un lavoro stabile, dignitoso, continuo nelle prestazioni, una selezione rigorosa del personale, una continua, attenta e altrettanto rigorosa verifica dei risultati e dei processi, da portare avanti con protocolli precisi e trasparenti.
Credo che al futuro governo spetterà il compito di riscrivere completamente la legge sul lavoro prevenendo rischi di derive ribellistiche, al Sindacato quello di rappresentare con più decisione i precari evitando contrapposizioni e lacerazioni della coscienza sociale, ai giovani quello di reagire alla disperazione e di costruire con forza e consapevolezza un futuro migliore.
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