15.12.06

Quell'abbraccio mortale con i «baroni»

dal "manifesto" del 15 dicembre 2006

I lessici politici sono sempre «situati»: parole di rottura radicale in un contesto sono innocui zuccherini in un altro. Negli ultimi anni movimenti e conflitti sociali hanno prodotto, agito e imposto autonomamente il discorso sulla precarietà, determinandone la proliferazione semantica, introducendolo stabilmente nell'agenda politica, facendone un tema dirimente dell'ultima campagna elettorale. Fino ad arrivare a una parte del governo che si fa piazza tentando di rappresentare i precari. Il ciclo della «MayDay» è finito con il corteo del 4 novembre. Dire oggi che la precarietà è un tratto strutturale della società contemporanea, snocciolarne i dati e ribadirne la sua forma di vita e non solo di lavoro, è certo corretto dal punto di vista analitico, ma politicamente debole. Questo boccone è già stato masticato e deglutito dal sistema politico, l'eccedenza soggettiva - che è questione di qualità, non di quantità - non è stata eliminata, ma sicuramente addomesticata. Il termidoro del discorso sulla precarietà si può spezzare solo producendo un nuovo lessico forte. Cominciamo dall'università. Ci vuole poco a essere contro la Moratti,
molto di più a mettere radicalmente in discussione lo storico disinvestimento bipartisan nella formazione e nella ricerca. Ma il problema non è solo qualche milione in più o in meno nella finanziaria, bensì la struttura dell'università italiana, di cui anche Mussi è ostaggio. Si tratta di un'istituzione pachidermica al collasso, in cui precipita un letale mix di potere baronale e riforme aziendalistiche. Il peggio del sistema feudale e del capitalismo postfordista. I 55.000 precari affidano le loro speranze di diventare strutturati a un rapporto individualizzato con il barone, attendendo in coda per anni fedeli e ubbidienti. Scambiando quindi la propria libertà di ricerca e intellettuale per un concorso, formalmente pubblico, in realtà «chiamato» (così si dice nel gergo accademico) dall'ordinario. Le linee di classe nelle «fabbriche del sapere» sono dunque confuse: i baroni diventano alleati, l'unico avversario è il governo (di centro-destra). In questa chiave è leggibile la crisi delle mobilitazioni dei ricercatori precari, che hanno individuato nella casta feudale un compagno di lotta, ancorché tattico, anziché il primo avversario da battere. Si è così consegnato alla fondazione privata Crui il ruolo di rappresentante della cittadella del sapere e custode della sacralità della Cultura. In Italia la retorica dell'università-azienda è usata come dispositivo di gestione e controllo della forza lavoro (studenti e ricercatori): di fatto non la vogliono né la destra né la sinistra, la prima impaurita dalle lobby accademiche, la seconda incarnandone una buona parte. E non la vogliono nemmeno le imprese, che preferiscono un ruolo parassitario su formazione e ricerca. Nella misura in cui i saperi diventano forza produttiva centrale e la funzione intellettuale viene riassorbita dalla cooperazione sociale, perdendo finalmente la sua aura di privilegio, la difesa della torre d'avorio è conservatrice e corporativa. Serve una posizione politicamente audace e sobriamente provocatoria: il problema dei precari è aggredire i privilegi presenti nella cittadella del sapere, spingendo fino in fondo il paradosso dell'università-azienda e trasformandola in un terreno di conflitto.
Non in quanto il modello imprenditoriale sia basato sulla (nefasta) meritocrazia: sarebbe come credere alle favole del libero mercato à la Ichino o Giavazzi. Ma perché scardinare il controllo feudale vuol dire per i precari rompere i meccanismi di fidelizzazione, asservimento personale e invidualizzazione gerarchica: avere di fronte il nemico nella sua nuda forma permette di demistificare i rapporti di potere e focalizzare il conflitto.
Nell'università italiana, dunque, destrutturare il governo verticale significa
non frenare ma accelerare il processo della solo evocata governance , aprendo lo scarto tra «governamentalità» e innflazione dei meccanismi di gestione policentrica del potere, e allargando così gli spazi per l'autorappresentazione del precariato. La rivendicazione dei 55.000 precari di diventare strutturati nell'università, per quanto legittima, da un lato è impercorribile se continua lo storico disinvestimento da parte del sistema politico. E tuttavia non muta i rapporti di potere, rischiando anzi di rafforzarli. La linea del conflitto all'interno delle «fabbriche del sapere»
si articola intorno alla lotta tra autonomia e subordinazione nella produzione
cognitiva e nella gestione dei tempi di vita. Del resto, chi parla di una taylorizzazione del lavoro formativo e di ricerca coglie l'intento disciplinante delle riforme universitarie, ma dimentica l'aspetto centrale: la sua impossibilità, in quanto la produzione dei saperi sfugge ai criteri della misurazione e della serializzazione. In questo scarto si colloca l'irresolubile contraddizione piantata nel cuore del capitalismo cognitivo, che per alimentarsi dipende strutturalmente dall'eccedenza e dalla libertà del sapere vivo, ma deve continuamente controllarla e quindi negarla. L'applicazione delle rigidità contrattuali fordiste è tanto impraticabile data la costitutiva intermittenza dell'attività cognitiva - quanto poco desiderata dalle nuove soggettività del lavoro vivo. Il problema è la conquista di tutele (reddito, mobilità, gestione di spazi e tempi), articolate in modo flessibile,
per allargare la sfera di autonomia. Alcune stenografiche proposte esemplificative: basta con i concorsi, la loro ideologia statalista e il controllo feudale, ma contrattazione diretta tra precari e università-azienda; rivendicazione di cospicui finanziamenti - pubblici e privati per la mobilità e la costruzione di reti transnazionali tra studenti e precari senza il controllo dei docenti, per la pubblicazione di testi e circolazione di conoscenze fuori dal sistema della proprietà intellettuale, per attività di autoformazione liberamente scelte, interamente autogestite e riconosciute in crediti formativi, inflazionandone così il meccanismo. È necessario rovesciare il precariato: da figura di assenza (di diritti e stabilità), bisognoso di rappresentanza, in soggetto costitutivamente potente, dunque autonomo. Facendo della sua apparente debolezza, l'essere ai margini, il suo reale punto di
forza, situato sulla frontiera dell'ambivalente spazio dell'università che si fa metropoli. Insomma, il problema non è cicatrizzare la crisi dell'accademia, ma agirla fino in fondo.

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