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26.10.07

La legge 30 condannata anche dall’Onu

L’Agenzia per il lavoro (Ilo) convoca l’Italia per discuterne: le forme di precarietà esistenti da noi sono contro la Convenzione 122
Vittorio Longhi

«Con il pretesto della flessibilità per modernizzare il mercato del lavoro, la legge 30 del 2003 ha creato una situazione di precarietà preoccupante. Secondo le statistiche ufficiali, i contratti a termine sono diventati quasi l’unico modo che hanno i giovani di trovare un impiego ma poi è raro che questi si traducano in lavori stabili, con un rapporto di uno a 25. Stanno aumentando le distorsioni del mercato del lavoro, specialmente nel sud del paese dove la diminuzione del tasso di occupazione ha raggiunto livelli allarmanti». Non sono le considerazioni note della sinistra radicale o dei metalmeccanici Fiom, critici sul Protocollo del governo perché conserva gran parte della legge 30, ma le osservazioni della Commissione di esperti dell’International labour organisation, Ilo, agenzia delle Nazioni unite per i diritti del lavoro, che ha preso in esame il caso italiano.
È passata quasi inosservata la notizia che il nostro governo, tramite il ministro Damiano, è stato convocato in un’audizione speciale nel corso della 96° Conferenza internazionale del lavoro, a giugno a Ginevra, per discutere della situazione in Italia e degli effetti della legge 30, che ha suscitato non poche perplessità nella comunità internazionale. L’Ilo, lo ricordiamo, ha un ruolo normativo e di controllo sull’applicazione delle norme internazionali, oltre che di sostegno ai governi impegnati nel perseguimento del «Lavoro dignitoso», Decent work, contro la deregolamentazione dell’occupazione e la negazione dell’intervento pubblico di protezione sociale. Dai verbali dell’audizione italiana, emerge con chiarezza «l’incompatibilità» delle riforme del governo Berlusconi rispetto alla Convenzione 122 sulle politiche del lavoro. La Convenzione, ratificata dall’Italia nel 1971, impone agli Stati membri l’adozione di «programmi diretti a realizzare un impiego pieno, produttivo e liberamente scelto» e in generale «l’elevazione dei livelli di vita, attraverso la lotta alla disoccupazione e la garanzia di un salario idoneo».
Invece, secondo la Commissione composta da 20 giuslavoristi di tutto il mondo, «l’unico fine perseguito dal vecchio governo è la liberalizzazione del mercato del lavoro secondo un modello di contrattazione sempre più individualizzata, a discapito di politiche territoriali di sviluppo nell’industria e nella ricerca, fondamentali per assicurare competitività nei settori innovativi, anziché cercare di competere con le economie emergenti sul costo del lavoro». Pertanto, dopo avere ascoltato sindacati e imprese, dopo una valutazione della legge 30 e delle sue forme contrattuali, dopo un’analisi dei dati sull’andamento dell’occupazione italiana, la Commissione ha dato le sue indicazioni, individuando alcune priorità da seguire per rimediare ai danni dell’ultima riforma e rispettare la Convenzione 122. In sintesi, è stato richiesto «un ritorno alla centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato come forma tipica di occupazione», attraverso una concertazione che vada a beneficio dei lavoratori, in termini di condizioni salariali e di vita, e non solo delle imprese. Inoltre, sono da affrontare con urgenza i problemi del lavoro irregolare, le persistenti disparità territoriali e di genere nell’occupazione, la dispersione scolastica, la disoccupazione di lunga durata, i bassi livelli di istruzione e, come indicato dal sindacato, la questione dell’età pensionabile, non risolvibile con scaloni più o meno alti, ma con forme migliori di flessibilità in entrata e in uscita. Il governo dovrà presentare un rapporto dettagliato sulle misure prese in questa direzione e sul loro impatto.
Tuttavia, a parte un’effettiva ripresa del dialogo sociale, non sembra che il Protocollo sul welfare sia in linea con le osservazioni dell’Ilo riguardo alle modifiche radicali della legge 30, che poi coincidono con le posizioni iniziali del sindacato e della sinistra, tutta, ai tempi del governo Berlusconi. «Anche se le indicazioni non vanno nel dettaglio degli strumenti da adottare, con il Protocollo siamo ancora molto lontani dalle raccomandazioni che la Commissione di esperti ha dato», conferma Leopoldo Tartaglia del dipartimento internazionale Cgil e delegato del sindacato confederale alla Conferenza, coerente con i contenuti della piattaforma sindacale Cgil, Cisl e Uil di giugno. È interessante notare che «i rappresentanti della Confindustria presenti a Ginevra non hanno fatto commenti sulla descrizione della situazione italiana - racconta Tartaglia -, anzi hanno detto di apprezzare le intenzioni del governo attuale di combattere il lavoro precario e irregolare». All’audizione dell’Ilo non ha partecipato il ministro Damiano, seppure convocato formalmente, ma Lea Battistoni, che al ministero è direttore generale del mercato del Lavoro. Dopo avere premesso che il nuovo esecutivo è in carica da troppo poco tempo per mostrare già i risultati delle proprie politiche, Battistoni ha rassicurato la Commissione spiegando che le richieste dei sindacati erano state prese in considerazione e che non c’è motivo di preoccuparsi per il mancato rispetto delle convenzioni internazionali da parte dell’Italia: «Questa discussione – ha detto – sembra appartenere al passato, a un altro governo».
dal Manifesto

7.5.07

Assumi l'outbound

da Antonio Sciotto:

Il quotidiano "il manifesto" ha lanciato dalle pagine economiche, sabato 5 maggio, la campagna "Assumi l'outbound". Scopo della campagna è segnalare i call center in cui non sono stati assunti i dipendenti precari cosiddetti outbound.
Per segnalare la propria condizione o semplicemnete un call center (specialmente se piccolo) scrivete a:

asciottoCHIOCCIOLAilmanifesto.it

(ovviamente al posto della chiocciola dovete inserire il simbolo @)

16.4.07

Precari. Un libro che parla di noi

Recensione del libro "La rivoluzione Precaria, di Antonio Sciotto e Anna Maria Merlo

(6 aprile 2007)

Un libro di Antonio Sciotto e Anna Maria Merlo racconta il movimento Francese anti Cpe,parlando anche della realtà Italiana, sempre piu’determinata dalla precarizzazione del lavoro.

Parafrasando uno dei piu’noti aforismi Marxisti, oggi “uno spettro si aggira per l’Europa… la precarietà”.

Così si potrebbe riassumere l’essenza del libro “La rivuluzione precaria” (Ediesse, Novembre b2006), scritto da due penne de Il Manifesto, Antonio Sciotto e Anna Maria Merlo, rispettivamente giornalista economico e corrispondente da Parigi del “Quotidiano Comunista”.

Il libro è interemante dedicato al movimento francese contro il CPE (contratto di primo impiego), quello che Supiot ha definito come “la più grande e recente protesta di una giovane generazione contro lo svilimento del lavoro e dei suoi diritti”.

“La Rivoluzione Precaria” si presenta quindi come una classica produzione da “movimento”, raccogliendo interviste,riflessioni, analisi statistiche, documenti e manifesti prodotti in quella breve ma intensa ( e non esaurita) stagione di lotte.

Una stagione particolare,perchè per la prima volta le generazioni più giovani sono riuscite a dare una dimensione collettiva e politica a frustrazioni e paure per troppo tempo celate nella mera sfera individuale.

Il movimento dei giovani francesi ha rappresentato e rappresenta infatti un qualcosa che travalica le Alpi e, come ha scritto Ramonet nella prefazione del libro, ci parla dell’incapacità della sinistra nel saper leggere le trasformazioni avvenute, con gli occhi dei novelli sfruttati da organizzare e difendere. In una trama che va oltre i singoli provvedimenti del Governo di centrodestra e che evidenzia la portata gigantesca di una crisi. Quello di un modello di sviluppo che non riesce piu’ a garantire mobilità sociale, ridistribuzione di occasioni e potere (anche indipendentemente dal successo scolastico e universitario dei piu’giovani).

Nel libro si mette a nudo la crisi degli ultimi assiomi positivisti sopravvisuti alla caduta del muro di Berlino: non è piu’ vero che basta studiare e laurearsi per godere di condizioni sociali migliori di quella di partenza. Non è piu’ vero che “flessibile è bello”, che l’individuo solo sul mercato ( sul mercato di oggi, nell’economia riorganizzata di oggi) sia piu’ libero e consapevole.

Sotto accusa è certo la precarietà, la mano invisibile del mercato, la sistematica mercificazione del lavoro. Ma piu’ in generale sotto accusa è un modello che svilisce le energie migliori del continente, che crea tappi generazionali, che impedisce la messa in moto dei circuiti creativi, intellettuali, immaginifici, di cui le generazioni piu’ giovani sono portatrici.

Ed allora questo libro non parla solo della Francia, ma dell’intera Europa, dell’incapacità di rinnovare quel compromesso tra ragioni del mercato e ragioni del lavoro, che ha dato vita al welfare state, che ha responsabilizzato l’impresa, che ne ha ancorato le pulsioni piu’ animali al rispetto dei confini della cittadinanza.

E, quindi, il libro parla anche dell’ Italia.

Non a caso gli autori hanno voluto a tutti i costi uscire in libreria prima del 4 novembre, data della manifestazione indetta dal cartello “Stop precarietà ora”, divisosi negli ultimi giorni a seguito delle esternazioni dei Cobas che hanno convinto parte della Cgil e altri partecipanti a disertare l’appuntamento.

“La rivoluzione precaria” esprime una denuncia che inchioda la politica alle proprie responsabilità, alla propria funzione regolatrice e che. in fin dei conti, investe anche un’idea di democrazia e di libertà.

Come retoricamente si interroga uno degli studenti francesi nei giorni dell’occupazione della Sorbona :” che libertà è quella che si basa sull’insicurezza? Che democrazia sarà mai possibile se molti di noi saranno lavoratori precari per tutta la vita, con la sistematica paura anche solo di parlare, organizzarsi, denunciare le ingiustizie che subiscono?”

Un libro quindi che bisogna leggere, perchè raccoglie voci simili a quelle che potremmo ascoltare in un qualsiasi call center di Firenze, Milano o Roma o in un centro di ricerca di Napoli.

Un libro che parla di noi, dei nostri problemi, delle nostre sconfitte, ma soprattutto delle nostre possibili vittorie.

Letizia Tassinari

27.3.07

Call center. Assocontact: «Per noi gli outbound sono a progetto». Resterebbero precari in 40.000

Da: "il Manifesto", 24 marzo 2007

di Antonio Sciotto

Le stabilizzazioni nei call center si profilano più difficili del previsto, perché via via che si avvicina la data del 30 aprile - ultimo giorno utile per gli accordi incentivati dalla finanziaria - emergono le differenze di interpretazione (ma d'altra parte è prevedibile) tra imprese e sindacati: il nodo del contendere sta nella circolare Damiano, nel punto in cui prevede la possibilità per gli outbound (i lavoratori che fanno le telefonate) di essere assunti a progetto, e su cui peraltro Assocontact-Confindustria e Cgil-Cisl-Uil hanno firmato un avviso comune. Sul giornale di ieri le accuse della Slc Cgil: alcuni gruppi sfuggono in tutti i modi alle regolarizzazioni e in alcuni casi camuffano gli inbound (quelli che ricevono le telefonate) da outbound, pur di mantenerli a progetto. Il segretario nazionale del sindacato, Alessandro Genovesi, ci ha spiegato che finora la Slc non ha mai trovato un outbound che soddisfi i 7 criteri di autonomia indicati dalla circolare, e che dunque - fino a prova contraria - la forma normale di assunzione è il contratto a tempo indeterminato. Abbiamo sentito l'associazione dei call center in outsourcing (cioè che lavorano su commessa), l'Assocontact, che tra l'altro la settimana scorsa aveva pubblicato sul manifesto una locandina a pagamento in cui chiedeva ai committenti pubblici e privati una maggiore «responsabilizzazione» dati i maggiori costi che con le stabilizzazioni questi «contoterzisti» si starebbero caricando. Umberto Costamagna è presidente di Assocontact, nonché titolare del gruppo Call&Call, 1200 operatori in tutta Italia.

Partiamo da una «mappa» del vostro settore. Quanti sono i lavoratori dei call center in «outsourcing» e chi è interessato dai processi di stabilizzazione?
Parliamo di 80 mila operatori: 60 mila sono collaboratori e i restanti 20 mila subordinati. Quarantamila sono inbound e gli altri 40 mila outbound: dunque sono interessati alle stabilizzazioni in 20 mila, ovvero quelli che tra gli inbound sono ancora a progetto.

Escludete di stabilizzare ben 40 mila outbound? Per voi sono a priori cocoprò?
Non a priori, noi applichiamo la circolare Damiano. Abbiamo partecipato alla scrittura dei 7 punti che individuano l'autonomia: autonomia nelle fasce orarie, pause autogestite, nessuna gerarchia né controllo, ricevono informazione e non formazione, lavoro per obiettivi concordati e retribuzione a obiettivo raggiunto, possibilità di rifiutare le telefonate che partono automaticamente dal sistema. L'inbound è sicuramente subordinato, per l'outbound noi partiamo dalla considerazione che applica i 7 punti, dunque è autonomo e perciò a progetto. Questo, fino a prova contraria: ma la prova contraria non la offre il sindacato, che non può arrogarsi il diritto di dire se rispettiamo o meno una legge, ma spetta al giudice o all'ispettore del lavoro.

Dunque escludete di confrontarvi con il sindacato per stabilire la «genuinità» dell'autonomia e stabilizzare? Ad esempio la Slc afferma che il suo gruppo non ha aperto un tavolo nazionale e ne ha solo locali.
E' vero che non abbiamo un tavolo nazionale, e ne abbiamo locali, dedicati alla stabilizzazione solo dove ci sono inbound a progetto. A Reggio Calabria e Cosenza, dove a progetto ho solo outbound io non apro tavoli di stabilizzazione. Questo però non esclude che in futuro possa aprire tavoli specifici per trattare le condizioni dei cocoprò outbound, ma, ripeto, non per stabilizzarli.

Ma dove sta l'autonomia se i compensi li stabilite voi e se le telefonate partono in automatico dal sistema? Le liste dei clienti da chiamare chi le fornisce all'outbound?
Il compenso lo stabiliamo volta per volta con i singoli lavoratori, tarandolo sull'obiettivo da raggiungere. Ripeto: c'è un sistema che permette di rifiutare le telefonate. Le liste dei clienti ce le forniscono i committenti. Noi dobbiamo distinguere i lavoratori autonomi da chi non lo è: il nostro sistema ha bisogno di flessibilità perché le commesse che riceviamo dai clienti sono di un anno, due anni, o anche di una settimana. Faccio un esempio: per i primi cinque giorni un cliente mi chiede 40 inbound, e per il sesto giorno - per un calo fisiologico - gliene servono 5. Allora ci sono varie scelte che stanno facendo le diverse aziende. La Cos ha deciso di stabilizzare tutti, anche gli outbound, ma offre part time di 20 ore settimanali. La mia azienda, invece, che sceglie di stabilizzare solo gli inbound, può offrire contratti di 30-40 ore.

Il gruppo Datel di Abramo sta offrendo contratti di apprendistato e inserimento a operatori anziani. Altri chiedono deroghe ai contratti. Non sono abusi delle regole?
Certo, l'apprendistato e l'inserimento si devono giustificare, ma sono contratti legali. Le deroghe si chiedono per aiutare un settore che si riordina dopo anni di eccessi, di corse al risparmio. Una gara dell'Anas ci offriva 10 euro l'ora quando un subordinato ne costa 14-15. Così non si va da nessuna parte e credo che le aziende pubbliche, e dunque il governo, come i privati, devono capire che le regole sono cambiate. Quanto al sindacato: non servono le grida manzoniane, l'«assumiamo tutti e subito» crea tensione e i miei poi dicono: così traslochiamo in Romania.

15.12.06

Quell'abbraccio mortale con i «baroni»

dal "manifesto" del 15 dicembre 2006

I lessici politici sono sempre «situati»: parole di rottura radicale in un contesto sono innocui zuccherini in un altro. Negli ultimi anni movimenti e conflitti sociali hanno prodotto, agito e imposto autonomamente il discorso sulla precarietà, determinandone la proliferazione semantica, introducendolo stabilmente nell'agenda politica, facendone un tema dirimente dell'ultima campagna elettorale. Fino ad arrivare a una parte del governo che si fa piazza tentando di rappresentare i precari. Il ciclo della «MayDay» è finito con il corteo del 4 novembre. Dire oggi che la precarietà è un tratto strutturale della società contemporanea, snocciolarne i dati e ribadirne la sua forma di vita e non solo di lavoro, è certo corretto dal punto di vista analitico, ma politicamente debole. Questo boccone è già stato masticato e deglutito dal sistema politico, l'eccedenza soggettiva - che è questione di qualità, non di quantità - non è stata eliminata, ma sicuramente addomesticata. Il termidoro del discorso sulla precarietà si può spezzare solo producendo un nuovo lessico forte. Cominciamo dall'università. Ci vuole poco a essere contro la Moratti,
molto di più a mettere radicalmente in discussione lo storico disinvestimento bipartisan nella formazione e nella ricerca. Ma il problema non è solo qualche milione in più o in meno nella finanziaria, bensì la struttura dell'università italiana, di cui anche Mussi è ostaggio. Si tratta di un'istituzione pachidermica al collasso, in cui precipita un letale mix di potere baronale e riforme aziendalistiche. Il peggio del sistema feudale e del capitalismo postfordista. I 55.000 precari affidano le loro speranze di diventare strutturati a un rapporto individualizzato con il barone, attendendo in coda per anni fedeli e ubbidienti. Scambiando quindi la propria libertà di ricerca e intellettuale per un concorso, formalmente pubblico, in realtà «chiamato» (così si dice nel gergo accademico) dall'ordinario. Le linee di classe nelle «fabbriche del sapere» sono dunque confuse: i baroni diventano alleati, l'unico avversario è il governo (di centro-destra). In questa chiave è leggibile la crisi delle mobilitazioni dei ricercatori precari, che hanno individuato nella casta feudale un compagno di lotta, ancorché tattico, anziché il primo avversario da battere. Si è così consegnato alla fondazione privata Crui il ruolo di rappresentante della cittadella del sapere e custode della sacralità della Cultura. In Italia la retorica dell'università-azienda è usata come dispositivo di gestione e controllo della forza lavoro (studenti e ricercatori): di fatto non la vogliono né la destra né la sinistra, la prima impaurita dalle lobby accademiche, la seconda incarnandone una buona parte. E non la vogliono nemmeno le imprese, che preferiscono un ruolo parassitario su formazione e ricerca. Nella misura in cui i saperi diventano forza produttiva centrale e la funzione intellettuale viene riassorbita dalla cooperazione sociale, perdendo finalmente la sua aura di privilegio, la difesa della torre d'avorio è conservatrice e corporativa. Serve una posizione politicamente audace e sobriamente provocatoria: il problema dei precari è aggredire i privilegi presenti nella cittadella del sapere, spingendo fino in fondo il paradosso dell'università-azienda e trasformandola in un terreno di conflitto.
Non in quanto il modello imprenditoriale sia basato sulla (nefasta) meritocrazia: sarebbe come credere alle favole del libero mercato à la Ichino o Giavazzi. Ma perché scardinare il controllo feudale vuol dire per i precari rompere i meccanismi di fidelizzazione, asservimento personale e invidualizzazione gerarchica: avere di fronte il nemico nella sua nuda forma permette di demistificare i rapporti di potere e focalizzare il conflitto.
Nell'università italiana, dunque, destrutturare il governo verticale significa
non frenare ma accelerare il processo della solo evocata governance , aprendo lo scarto tra «governamentalità» e innflazione dei meccanismi di gestione policentrica del potere, e allargando così gli spazi per l'autorappresentazione del precariato. La rivendicazione dei 55.000 precari di diventare strutturati nell'università, per quanto legittima, da un lato è impercorribile se continua lo storico disinvestimento da parte del sistema politico. E tuttavia non muta i rapporti di potere, rischiando anzi di rafforzarli. La linea del conflitto all'interno delle «fabbriche del sapere»
si articola intorno alla lotta tra autonomia e subordinazione nella produzione
cognitiva e nella gestione dei tempi di vita. Del resto, chi parla di una taylorizzazione del lavoro formativo e di ricerca coglie l'intento disciplinante delle riforme universitarie, ma dimentica l'aspetto centrale: la sua impossibilità, in quanto la produzione dei saperi sfugge ai criteri della misurazione e della serializzazione. In questo scarto si colloca l'irresolubile contraddizione piantata nel cuore del capitalismo cognitivo, che per alimentarsi dipende strutturalmente dall'eccedenza e dalla libertà del sapere vivo, ma deve continuamente controllarla e quindi negarla. L'applicazione delle rigidità contrattuali fordiste è tanto impraticabile data la costitutiva intermittenza dell'attività cognitiva - quanto poco desiderata dalle nuove soggettività del lavoro vivo. Il problema è la conquista di tutele (reddito, mobilità, gestione di spazi e tempi), articolate in modo flessibile,
per allargare la sfera di autonomia. Alcune stenografiche proposte esemplificative: basta con i concorsi, la loro ideologia statalista e il controllo feudale, ma contrattazione diretta tra precari e università-azienda; rivendicazione di cospicui finanziamenti - pubblici e privati per la mobilità e la costruzione di reti transnazionali tra studenti e precari senza il controllo dei docenti, per la pubblicazione di testi e circolazione di conoscenze fuori dal sistema della proprietà intellettuale, per attività di autoformazione liberamente scelte, interamente autogestite e riconosciute in crediti formativi, inflazionandone così il meccanismo. È necessario rovesciare il precariato: da figura di assenza (di diritti e stabilità), bisognoso di rappresentanza, in soggetto costitutivamente potente, dunque autonomo. Facendo della sua apparente debolezza, l'essere ai margini, il suo reale punto di
forza, situato sulla frontiera dell'ambivalente spazio dell'università che si fa metropoli. Insomma, il problema non è cicatrizzare la crisi dell'accademia, ma agirla fino in fondo.