Sono oltre 20 mila i giornalisti senza una forma decente di contratto, a fronte di poco più di 12 mila contrattualizzati. Un piccolo esercito che permette ad editori grandi e piccoli, nazionali e locali, di prosperare e fare utili senza precedenti da oltre due anni, nonostante le loro litanie della “torta ridotta dei proventi pubblicitari, tutti a favore della TV” (!) e il solito ritornello dei giornalisti garantiti, ben pagati e corporativi.
Quella del giornalismo non è più una professione come poteva essere vent’anni fa. E dall’introduzione delle nuove tecnologie, dalla scomparsa dei poligrafici, dall’arrivo con prepotenza di capitali legati ad altri interessi e non più derivati da alcune famiglie di “editori puri”, che il giornalismo ha cambiato pelle.
Sono aumentati a dismisura i precari e sempre più gli editori e i loro direttori fanno ricorso alla “forza lavorativa esterna” alle redazioni: siano grandi opinionisti oppure semplici redattori inviati sui luoghi più disparati.
Forse come sindacato e ordine professionale non siamo riusciti negli anni scorsi a contrastare questa deriva illiberale, non abbiamo spinto con forza affinché la politica approvasse una legge moderna sullo statuto d’impresa, che pure il Gruppo di Fiesole (antesignano della corrente sindacale di Autonomia e solidarietà, alla guida della FNSI da anni) aveva discusso e preparato già agli inizi degli anni Novanta.
In tutto questo tempo, il mercato dell’editoria si è sviluppato senza regole, in sintonia quasi perfetta con l’anarchia mercantile delle televisioni. Da una parte, dunque, l’anomalia berlusconiana del duopolio televisivo pubblico e privato italiano, con il drenaggio di ingenti risorse pubblicitarie; dall’altro, l’ingresso nell’editoria scritta ( quotidiani, riviste, radio e tv locali, agenzie, siti web, free press) di potentati economici, che si servono della stampa per tessere intrecci politico-affaristici, strane alleanze politiche ed economiche per fare pressioni sul governo nazionale e su quelli locali.
Dietro alle principali testate scritte, agenzie nazionali e a veri e propri network locali e interregionali ci sono personaggi che contemporaneamente finanziano o compartecipano testate filogovernative oppure di opposizione.
Un mercato così vasto come quello della comunicazione è diventato oggi, e che tende ad allargarsi ancor più con la piena maturità della “WebPress”, ha bisogno di enormi quantità di “braccia da lavoro”, senza regole e a bassi salari.
Ecco allora che l’allargamento della professione giornalistica, grazie alle tante scuole post-universitarie di giornalismo riconosciute dall’Ordine, ai mille e più professionisti riconosciuti ogni anno attraverso l’esame di stato, se da una parte ha rotto la cortina di corporativismo e di “casta elitaria”, dall’altra ha permesso agli editori “impuri” di utilizzare una gran massa di professionisti precari, per dare vita a tutte le nuove iniziative editoriali.
Ma è vera libertà di stampa, quella che viene immessa sul mercato grazie al lavoro schiavistico di 20 mila professionisti che sopravvivono con meno di 800 euro di media al mese? La libertà, ce lo ricordano gli economisti di stampo neoliberista, ma anche i keynesiani e i marxisti puri, costa cara e va alimentata con regole chiare fatte rispettare da tutti. Ma in Italia le regole in questo mercato non esistono e quelle poche sono disattese. Mai che un giudice abbia indagato sulle condizioni di sfruttamento dei precari che nella propria regione di competenza permettono di far prosperare quei giornali che ogni mattina si ritrovano gratuitamente sulle scrivanie o quelle radio e televisioni locali che spesso li fanno conoscere al grande pubblico, dopo aver svolto magari un’indagine di rilievo.
Come se il precariato nel giornalismo fosse uno “scotto da pagare” per diventare professionisti, la mitica “gavetta” di un tempo. Solo che stiamo nel 2006/2007, nell’era di internet, nella società dove il successo spesso viene valutato più per i centimetri scoperti del corpo che per il quoziente di intelligenza!
Se il contratto nazionale non viene nemmeno discusso dagli editori ( i vari De Benedetti, Montezemolo, Tronchetti Provera, Della Valle, Angelucci, Caltagirone, Rieffeser-Monti, Berlusconi, le principali banche e società finanziarie italiane,che siedono nel “salotto buono” di Mediobanca), ci sarà pure una ragione “mercantile”! Ovvero ci sono interessi politici e affaristici affinché questa situazione di illeberalità e precarietà restino ben radicate nel settore della comunicazione italiana.
Continuando così, ovviamente a farne le spese sono i giornalisti, tutelati e precari, ma anche i lettori, gli spettatori, le forze sociali e soprattutto il governo di centrosinistra, guidato da Prodi.
Il contratto è scaduto a febbraio del 2005, in piena epoca berlusconiana, ma la sua odissea continua in piena epoca prodiana. Gli editori che allora facevano le pulci al mal governo di Sua Emittenza , oggi fanno altrettanto nei confronti del governo Prodi. Una semplice coincidenza? O non è cambiato davvero nulla nella società e nella politica italiana?
C’è un gioco delle parti che viene fatto alle nostre spalle( operatori dell’informazione e pubblico contribuente e votante)?
Di certo, assistiamo al perdurare dell’anarchia del mercato, in piena epoca di innovazione tecnologica al riposizionamento dei gruppi finanziari, all’indeterminatezza dei “poteri forti” a scegliere con chiarezza il campo politico dove installarsi per un certo, eventualmente lungo, periodo. E così tutti paghiamo lo scotto delle “non scelte”, anche i settori che dovrebbero avere un contratto sacrosanto dopo quasi due anni dal termine del precedente.
Ma è proprio la precarietà dell’establishment economico-finanziario-politico a creare un clima di evanescenza ed effervescenza nella società e nei luoghi di lavoro. Assistiamo, senza che i giornalisti producano analisi approfondite e comparazioni internazionali, al più grande risiko del sistema bancario. Siamo senza occhi ed orecchi per comprendere le mutazioni quasi genetiche che avvengono nei vari strati sociali, a partire dalla rivoluzione del mondo del lavoro, sempre più precario, sempre più senza tutele, dove la gente muore ( tre persone al giorno, record europeo!),
si ammala e non ha più prospettive di miglioramento. E il futuro, pensionistico e assistenziale, si chiama sempre e comunque precarietà!
Le città vivono nella violenza sottile e strisciante, senza che nessuna ricerca venga fatta per capire cosa sta succedendo tra chi abita nei centri storici e coloro che vivono nelle periferie (solo l’arcivescovo di Milano, monsignor Tettamanzi, ha azzardato sotto Natale un’analisi davvero interessante, la prima nel suo genere!).
Per non parlare dell’assenza nella grande informazione radiotelevisiva di quanto sta succedendo nel resto del mondo, che solo a tratti riusciamo a percepire quando però si tratta di casi di cronaca nera, guerre, epidemie, tsunami, o “cronaca rosa”, avvenimenti legati al paludato mondo dello spettacolo e del costume.
Questa non è la stampa, bellezza! Questa è il caos informativo indotto perché la gente, i milioni e milioni di elettori, contribuenti, lavoratori e pensionati vivano nella precarietà intellettuale, nell’incertezza del futuro. Questa è l’anticamera dell’illibertà e del regime. A meno che le coscienze libere e impegnate di questo paese non dimostrino uno scatto di orgoglio ed inizino a rialzare la testa, risolvendo i nodi più intricati di questo paese: cominciando proprio dal contratto nazionale collettivo dei giornalisti.
Agli inizi del Novecento, quando non esistevano i contratti collettivi, fu siglato per la prima volta nella storia dei rapporti sociali quello dei giornalisti. E da quella determinazione seguirono i contratti nazionali per altre più vaste ed importanti categorie. Oggi potrebbe accader l’esatto contrario: l’abolizione del contratto nazionale collettivo per i giornalisti farebbe così da battistrada al ridimensionamento dei contratti nazionali per metalmeccanici, chimici, commercio, e quanti altri, magari passando prima per la contrattazione locale e aziendale, per poi arrivare in tempi stretti agli sciagurati contratti individuali.
Cosa si aspetta ancora per fermare questa deriva illiberale? E dopo i contratti abrogati, ne siamo convinti, toccherà anche alla politica essere abrogata, perché senza certezze e dignità lavorative, l’informazione è solo asservita, precaria e di parte. E’ proprio vero: la libertà costa cara e la stampa libera lo è ancora di più! Ma questi sono i costi, benedetti, della democrazia.
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