L'ESPONENTE DIESSINO ANTICIPA I PRIMI INTERVENTI: LE ASSUNZIONI A TEMPO INDETERMINATO SARANNO INCENTIVATE, TORNINO AD ESSERE LA NORMALITA'.
21/5/2006
Gigi Padovani
Il ministro del Lavoro Cesare Damiano è nato a Cuneo nel 1948: dopo trent’anni di sindacato, nella Fiom dei metalmeccanici, nel 2001 è entrato nella segreteria Ds
Cesare Damiano è il terzo ex sindacalista, con Bertinotti e Marini, nella nuova nomenclatura del potere prodiano. Piemontese, riformista, amante della pittura (vignette e acquerelli) e delle musiche da film (da Nino Rota al minimalista Michael Nyman di Lezioni di piano), Damiano dice di aver preso possesso del ministero di Maroni senza dimenticare «l’odore della manifattura» che incominciò a conoscere a Mirafiori, quando era dirigente della mitica V Lega Fiom di corso Unione Sovietica a Torino. «Conosco la materialità del lavoro, della fatica, della vita di un operaio che guadagna 1200 euro netti al mese», dice al telefono mentre sta tornando da Montebelluna, distretto dello scarpone in provincia di Treviso, dove ha avuto il suo primo impegno da ministro del Lavoro. «E della Previdenza sociale», corregge con quella leggera pignoleria che soltanto chi è stato per trent’anni ai tavoli di trattativa sindacale può avere. Damiano non è un tipo da battute fulminanti - salvo il «farò come Zapatero» sulla legge Biagi, detta al giuramento che non gli ha portato fortuna - e così anticipa quali saranno i suoi primi passi.
La notizia che dà agli italiani questo diessino vagamente somigliante a Nanni Moretti (senza essere nevrotico come il regista) e che non si interessa di calcio - uno dei pochi in Italia - dovrebbe rassicurare gli ultra-cinquantacinquenni che vorrebbero andare in pensione. Vuole ripristinare le regole di flessibilità in uscita e abolire il «gradone» che il suo predecessore Maroni ha istituito dal primo gennaio 2008.
Ministro Damiano, passata l’emozione del primo giorno di scuola, se c’è stata?
«Sì, sì, è stato un cumulo di emozioni. Prima l’elezione alla Camera, poi l’onore di far parte dei grandi elettori di Giorgio Napolitano. Mi ha fatto effetto stare “dentro” Montecitorio, leggere quelle lapidi dell’annessione al Regno Sabaudo... E poi quella telefonata».
Chi l’ha avvisata che era nella squadra di Prodi?
«Piero Fassino, la mattina in cui il presidente è tornato al Colle con la lista. Da cuneese, non avevo pretese... E’ un incarico del quale sento la responsabilità, un grande impegno».
Lei è molto legato al segretario dei Ds: le dispiace che non sia entrato nel governo?
«Ero convinto che dovesse far parte della squadra di Prodi. Poi si è fatta una scelta diversa, condivisa anche da lui. Piero deve rimanere alla guida del partito per completare il percorso coraggioso che avviò al congresso di Pesaro del 2001, fino alla eventuale formazione del partito dell’Ulivo o democratico che dir si voglia, col passaggio del testimone a una nuova generazione di dirigenti».
Allora lei lasciò la Cgil.
«Già, accettai di entrare con Fassino in segreteria, prendendo la strada opposta di quella presa da tutto il gruppo dirigente Cgil: con Cofferati scelsero il correntone».
Da sempre con Fassino...
«Quando io ero alla Fiom di Torino, dopo essere entrato nel ‘68 come impiegato della Riv Skf ed essermi ribellato al clima pesante che vi si respirava, lui era in commissione fabbriche del Pci. Entrai nel 1975 nel partito di Berlinguer, siamo legati dall’ipotesi riformista e da una stima personale con profondi tratti culturali comuni».
Vacanze insieme?
«Anche, due giorni, vicino a Capalbio quest’estate nella casa del filosofo Sebastiano Maffettone: l’ho battuto a ping-pong».
Comuni frequentazioni di oratori e parrocchie?
«No, io sono di formazione laica, ma ho incontrato la politica e la passione civile attraverso la San Vincenzo con un campo di lavoro in Sicilia. Poi è venuto tutto il resto: i miei genitori erano commercianti a Cuneo, dove sono rimasto fino a 12 anni, per poi andare a studiare a Torino. Ma dovevo lavorare per mantenermi all’università: per me il sindacato fu il primo strumento di difesa dei miei diritti di impiegato. Lo dicevo agli amici studenti, che criticavano il sindacato: “Voi siete tranquilli, papà vi mantiene”».
Gli anni torinesi l’hanno molto colpita, prima di andare in Veneto come segretario regionale Cgil e poi a Roma.
«La mia università sono stati gli operai Fiat della Mirafiori. Oggi la classe operaia è passata dalla centralità a una certa solitudine, ma secondo me per agganciare la ripresa economica non dobbiamo dimenticare i valori del lavoro, di una organizzazione che, nella materialità della fatica quotidiana, come nei distretti produttivi, ha i suoi riferimenti».
Però i ragazzi dei call-center con contratti precari non sanno neppure di cosa si tratti.
«La mia non è nostalgia, la mia storia sindacale racconta che ho sempre evitato il conflitto sociale. Né voglio predicare il ritorno al posto fisso per questi giovani. Però loro hanno bassi salari come gli operai che ho conosciuto io, senza avere in cambio il posto fisso e il diritto alla pensione. E questo non va bene».
Come la mettiamo con la flessibilità?
«Non va negata. Bisogna però tornare al rapporto di lavoro stabile come normale tipo di assunzione e concedere alle imprese il diritto al lavoro temporaneo in momenti eccezionali di ripresa e di forti ordini. Ma il lavoro a progetto non deve diventare un tipo di concorrenza sleale: agiremo sul pedale dell’incentivo affinché le imprese assumano a tempo indeterminato».
Parliamo di legge Biagi: ha già detto che vuole cambiarla. E gli altri provvedimenti dei primi cento giorni?
«Questa espressione non mi piace. Ci sono di mezzo i conti pubblici e il “buco” che stiamo scoprendo non è quello “politico” che denunciò Tremonti: mi pare che stiamo andando verso un 4,5 per cento di deficit sul Pil, quasi un punto in più di quanto prevedeva Berlusconi. Detto questo, ribadisco quanto ho scritto nel programma dell’Unione con gli alleati: ci deve essere una crescita della competitività senza dimenticare i diritti del lavoro. Quindi si deve ridurre il costo del lavoro, con i cinque punti del cuneo fiscale, e metteremo anche mano alle pensioni».
Scusi, ne ha la competenza?
«Io e il ministro alla Solidarietà sociale Paolo Ferrero, abbiamo concordato, di comune intesa, che la Previdenza è una mia delega. C’è stato un errore nel decreto, rimedieremo presto».
Maroni dice che lo «spacchettamento» del Welfare ha riaperto un «polveroso vecchio ministero».
«Mica tanto: potrò occuparmi meglio del lavoro. Il solco è quello tracciato da uomini come Carlo Donat-Cattin, Gino Giugni, Tiziano Treu, Antonio Bassolino, Cesare Salvi...».
Torniamo alle pensioni.
«Tra pochi giorni avrò 58 anni e ho già più di 35 anni di contributi: credo che potrei andare a riposo, se lo volessi. Ma trovo ingiusto che la riforma introdotta da Maroni costringa chi al primo gennaio 2008 abbia 56 anni e 364 giorni a non poter andare in pensione, ma ad aspettare altri tre anni, fino ai sessanta. E’ incongruo, penalizza soltanto una classe di età. Perciò intendiamo ripristinare la flessibilità in uscita dal lavoro tra i 57 e 65 anni, come prima. Certo, tutto questo compatibilmente con i conti dell’Inps, ma so che si potrà tornare ad una gradualità e abolire questo ingiusto ”scalone”».
Quali saranno i suoi primi impegni della settimana?
«Farò un giro di incontri con le parti sociali, sindacati e imprenditori: ho sempre creduto nell’ascolto e nella concertazione».
Qualcuno ha detto che lei conosce il Settentrione, sia il Nord Ovest sia il Nord Est. Che nel voto però non è stato tenero con l’Unione.
«E’ vero, abbiamo fatto alcuni errori in campagna elettorale, ad esempio sulle tasse. Ma la fiducia del Nord si conquista con i fatti, come dice Andrea Pininfarina. Le imprese sanno che noi vogliamo dar fiato alla competitività e allo sviluppo qualitativo, con un concorso del fare e non con le contrapposizioni».
Categorie: damiano ds fiom legge30 pensioni tfr maroni bertinotti maggio2006
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