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2.2.08
Dal lavoro flessibile al posto fisso: in Toscana dopo 6 anni ci riesce il 48%
Secondo lo studio della Regione e dell'Irpet nel 2006 il 78,8% dei nuovi contratti è a tempo: sono soprattutto donne e laureati
01.02.2008
Dopo sei anni di flessibilità, solo il 48% degli occupati riesce ad avere un contratto a tempo indeterminato. E' uno dei dati emersi dalla ricerca condotta da Regione e Irpet su "La flessibilità del lavoro in Toscana".
Lo studio rivela anche che dal 1993 al 2006 la flessibilità nel lavoro è passata dal 4.5 al 12.5 (in Italia è al 13.1% e in Europa al 14.5%).
E l' assessore al lavoro Gianfranco Simoncini ricorda che nel 2006 il 78.8% dei nuovi posti di lavoro è stato rappresentato da contratti a tempo. Il ricorso alla flessibilità è cresciuto in modo costante, registrando una frenata solo negli anni 2001 e 2002 quando vennero varate norme per gli sgravi fiscali destinati a chi assumeva a tempo indeterminato.
Se il 48% dei lavoratori atipici dopo sei anni si è stabilizzato, il 20% resta precario, il 14% rimane senza lavoro e il 18%, rappresentato prevalentemente da casalinghe e studenti esce dal mercato del lavoro. La ricerca, la prima in Toscana, è stata avviata nel 2004 con interviste a 1800 lavoratori che nel 2000 avevano avuto un avviamento al lavoro con contratto a termine e nel 2006 sono stati nuovamente intervistate 900 persone del campione iniziale. Francesca Giovani, curatrice dello studio, sottolinea che l' 82% degli intervistati ha dichiarato di aver accettato il lavoro atipico perché non ha avuto alternative: "Significa che questa via non è un trampolino verso un'occupazione stabile".
Sono soprattutto le donne a dire di aver subito il lavoro flessibile (85% contro il 76% dei maschi). A rimanere più a lungo precari sono i laureati, ma solo perché attendono più dei diplomati e di coloro che sono senza titolo di studio l'occasione di lavoro più gratificante. Mentre le donne sono le più penalizzate: guadagnano il 20% in meno del collega maschio. Uno stipendio da 900 euro viene guadagnato dal 47% delle donne e dal 39% dei maschi. Il lavoro in rosa ha anche contratti più brevi. Il 53% viene assunto per un periodo massimo di 11 mesi, mentre la percentuale dei maschi, per lo stesso periodo di tempo, è del 32%. (ANSA)
28.5.07
Atipici, anche la sicurezza è precaria
Di Massimo Malerba e Luciana Mongiovì

In un mercato del lavoro in cui tutto è precario, dai contratti alle retribuzioni, non è che la sicurezza - così pomposamente richiamata dalla legge 626/94- faccia poi eccezione. Anzi, volendosi soffermare sui dati dell’ultima ricerca condotta da Eurispes - Ispesl scopriamo innanzitutto che i tassi di mortalità e di infortunio tra i lavoratori precari sono almeno due, tre volte superiore rispetto a quello dei lavoratori subordinati. Ma dati i numeri andiamo alle cause che sono principalmente riconducibili alla diffusa e generalizzata tendenza ad assegnare ai lavoratori non stabilizzati compiti pericolosi, mansioni che vanno svolte in ambienti di lavoro insalubri o, comunque, in condizioni di lavoro problematiche: condizioni che il personale a tempo indeterminato, di norma, rifiuterebbe. A ciò si aggiunga la connotazione individualizzata del contratto atipico che, in quanto tale, è normalmente (ad eccezione dei rapporti in somministrazione) slegato dai parametri definiti in sede di contrattazione collettiva e la mancanza di tutele sindacali. Per contro, si registra una sottostima delle denunce di infortuni e di malattie professionali dei lavoratori precari che consegue alla loro condizione di ricattabilità e di soggezione psicologica nei confronti del datore di lavoro o del management aziendale. E come se non bastasse, a confermare la stretta correlazione che corre tra lavoro atipico e rischio di infortuni ci pensa ancora la ricerca Eurispes dalla quale emerge che il maggiore rischio infortunistico nel lavoro atipico rispetto a quello subordinato è fortemente legato alla mutata organizzazione del lavoro (Incidenti sul lavoro e lavoro atipico” - Eurispes-Ispesl). Ma c’è di più se persino la Giustizia Europea si è scomodata, nel 2003, emettendo una condanna nei confronti dell’Italia per il mancato recepimento della direttiva comunitaria lavorativa, che prevede l’obbligo per i datori di lavoro di prevenire tutti i rischi che possono incidere sulla salute dei lavoratori, anche di natura psico-sociale o trasversale. Negli ultimi anni si è sviluppata una accentuata sensibilità rispetto alle ricadute psicologiche delle mutate condizioni di lavoro che ha promosso l’attivazione di inchieste sui fattori di rischio occupazionali principalmente nel settore dei Call Center (Monitoraggio su inchieste nei call center - NidiL Cgil Catania, luglio 2006). La scelta dei Call Center come luogo di lavoro da indagare è dipesa dalla rapida crescita che ha caratterizzato questo settore. Già nel 2002 l’Europa impiegava circa 2 milioni di addetti, ossia l’1,3 % della popolazione attiva, che si aggiungono agli oltre 5 milioni di operatori negli Stati Uniti. In Italia sono stati censiti 700 aziende di Call Center che impiegano più di 250.000 addetti su 3 milioni e 244 mila lavoratori precari. Il Dipartimento Salute e Sicurezza della CGIL Regione Piemonte in collaborazione con l’ASL 5 ha avviato, su sollecitazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di due Call Center, una indagine sull’esposizione ai rischi professionali focalizzando l’attenzione sugli aspetti legati all’organizzazione del lavoro. In particolare, sembra essere l’ambiente sociale ad influire sulla percezione del disagio da parte del lavoratore tra cui un basso livello di controllo sul proprio lavoro, l’imposizione di obiettivi di rendimento (numero e durata delle chiamate), la presenza di sistemi di monitoraggio delle prestazioni e la scarsità di pause (Studio R.O.C.C. Cgil Piemonte). Malgrado questo dato, è descritto che il management aziendale è più propenso a migliorare l’ergonomia e l’ambiente indoor piuttosto che l’organizzazione del lavoro ( Taylor et al, 2003). Fra i risultati attesi, usufruibili anche da parte del Servizio Sanitario della Regione Piemonte, è stata indicata la realizzazione di “Linee guida per la salute e la sicurezza nel settore dei Call Center”.
Infortuni in Sicilia, fra gli “atipici” è boom Presentato a Palermo l’ultimo Rapporto annuale regionale dell’Inail: crescono del 46% gli incidenti subiti dai lavoratori parasubordinati Il fenomeno infortunistico in Sicilia rappresenta il 3,6% del totale nazionale. Nell’anno 2005 sono stati denunciati all’Inail 33.756 infortuni sul lavoro di cui 28.165 nel settore industria e servizi, 3.295 in agricoltura e 2.296 tra i dipendenti dello Stato. È quanto emerge dall’ultimo Rapporto Annuale Regionale di Inail Sicilia (7 dicembre 2006), presentato a Palazzo Steri a Palermo. Fra le città siciliane Catania, Palermo e Messina sono quelle in cui si è verificato il maggior numero di infortuni, mentre nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Enna e Siracusa il numero di incidenti sul lavoro è cresciuto rispetto al 2004. Ottanta sono stati gli incidenti mortali denunciati, uno in più rispetto al 2004. La maggior parte degli infortuni mortali (65) è avvenuta nel settore dell’industria e dei servizi, 13 in agricoltura e 2 tra i lavoratori in conto Stato. In particolare nell’ambito dell’industria e servizi, il settore economico maggiormente colpito è rappresentato dalle costruzioni con 18 casi, seguito da quello manifatturiero con 11. Infortuni stradali e in itinere. Gli incidenti in itinere (quelli avvenuti lungo il tragitto casa-lavoro e viceversa) nel settore dell’industria e dei servizi sono aumentati del 9% rispetto ai dati del 2004. L’aumento si è verificato soprattutto nelle province di Catania (413), Palermo (354), Messina (184) e Siracusa (173). Ma il Rapporto Regionale registra anche una diminuzione degli infortuni mortali (13) rispetto ai 18 del 2004. In crescita, infine, gli incidenti stradali avvenuti durante il lavoro con 3.365 casi del 2005 rispetto ai 2.348 del 2004. In crescita gli infortuni dei lavoratori parasubordinati, tra i quali si registra un aumento del 46% rispetto all’anno precedente. Il 79% dei casi si concentra nelle province di Catania, Palermo, Trapani e Messina. In diminuzione del 27% gli incidenti sul lavoro avvenuti agli immigrati impiegati nel settore agricolo. La provincia maggiormente interessata è Ragusa, che con i suoi 114 casi racchiude il 55% degli eventi ragionali (205). Il numero maggiore di infortuni nell’isola riguarda il settore industria e servizi con 610 casi in più rispetto al 2004. Fra i lavoratori immigrati presenti in Sicilia, 198 incidenti sono accaduti a lavoratori tunisini. Mano, ginocchio, caviglia e colonna vertebrale sono le parti del corpo più colpite dagli incidenti sul lavoro: rappresentano, infatti, il 47% degli organi interessati in agricoltura e il 51% nell’industria e nei servizi.
Inchiesta sui precari della ricerca a Napoli
da Precat:
I precari della didattica e della ricerca dell’Ateneo Federico II hanno svolto un’accurata analisi per gli anni 2003-2006. Il dato mostra il progressivo diminuire di assegni di ricerca e borse post-doc a favore di forme contrattuali diparate e che l’Ateneo appalta oltre il 30 della sua offerta didattica espressa in ore.
Leggi il report della situazione del precariato alla Federico II
22.3.07
La Voce. Quanti sono i lavoratori precari
Emiliano Mandrone
Nicola Massarelli
I buoni risultati sul mercato del lavoro che giungono dalla Rilevazione sulle Forze di lavoro dell’Istat, ed in particolare il calo del tasso di disoccupazione (6,8%, media 2006), sono in larga parte da attribuire all’occupazione a termine, che ha contribuito per il 46% alla crescita dell’occupazione complessiva. Tale crescita, che oggi assume una connotazione positiva, ha però un'altra faccia della medaglia: la precarietà.
continua su La Voce
17.3.07
Zitto e scrivi: il precariato nel giornalismo odierno
Chiara Lico, giornalista Rai, interviene sul blog di Stampa Alternativa sulla patata bollente del precariato nel giornalismo odierno (a introdurre il suo romanzo in uscita su temi analoghi). Eccone uno stralcio:
In Italia il numero dei giornalisti precari ha superato quello degli assunti. Sono 12 mila i professionisti contrattualizzati e più di 20 mila quelli che lavorano senza contratto a tempo indeterminato o determinato. Nel complesso, sono 30 mila le persone che in Italia fanno informazione e di queste solo un terzo hanno un contratto nazionale da professionisti. Il resto è fatto di collaboratori, precari e coloro i quali anche senza avere il requisito professionale adatto a svolgere questo mestiere, nei fatti lo svolgono…. A questo si aggiunga la politica (che attualmente - e in modo bipartisan - si deve solo vergognare di come svilisce il ruolo del giornalista), visto che si sente - e fa bene perché le viene permesso - di essere la padrona-editrice di giornali e telegiornali. Ma tutto questo potrebbe essere ancora arginabile se il giornalista ricordasse qual è il suo compito: dar voce ai fatti, raccontarli. Possibilmente con la schiena dritta, come chiese all’epoca l’allora Capo dello Stato Ciampi.
Continua qui.
Isfol: lavoro e insoddisfazione
Tra i motivi di insoddisfazione nel rapporto Isfol 2006, emergono l'instabilità del rapporto di lavoro e la retribuzione: circa il 20% nel complesso teme di perdere il posto entro un anno, percentuale pari al 60% tra i lavoratori precari; il 55% degli intervistati che si dice preoccupato per le scarse opportunità di carriera (nell'ultima indagine risalente al 2002 la percentuale degli insoddisfatti era del 42%). Ma il vero punto dolente è quello dei precari. Tra i lavoratori a termine gli insoddisfatti rappresentano oltre il 20%. Il timore più diffuso è quello di perdere il posto (60% contro il 10% degli intervistati con un lavoro stabile), ma è forte anche il disagio per la mancata coincidenza tra il lavoro svolto e quello desiderato (nel 60% dei casi contro il 42% dei dipendenti stabili). Infine i precari lamentano bassi livelli retributivi, con il 47% che dichiara compensi inferiori a 900 euro contro il 15% dei dipendenti stabili con questa situazione.
Per approfondire: www.isfol.it
25.1.07
Giovane, istruito, con famiglia: è il precario lucano di Eurispes
POTENZA - Hanno in media 40 anni, con un diploma di scuola media superiore, almeno un figlio a carico e un contratto a progetto che dura dai tre ai cinque anni: è questo l’identikit del lavoratore precario lucano nella Pubblica amministrazione che emerge dal primo rapporto Eurispes «Pubblicamente precario», presentato oggi a Potenza nel corso di un convegno.
Lo studio prende in esame la condizione dei lavoratori precari negli enti pubblici in provincia di Potenza (Comuni, Regione, Comunità montane, enti sub-regionali, ministeri e università). I dati si riferiscono ad un campione di 250 persone, a cui sono stati somministrati dei questionari tra ottobre e novembre del 2006. Circa la metà degli intervistati ha sempre lavorato con contratti atipici, e il 42 per cento non ha mai firmato un contratto a tempo indeterminato.
Il 70 per cento dei precari lavora attualmente a tempo pieno, il 52 per cento guadagna tra gli 800 e i 1.400 euro netti al mese e il 57 per cento spera in un’eventuale stabilizzazione in un futuro prossimo: «E' un indagine rappresentativa della situazione in Basilicata – ha spiegato il segretario generale dell’Eurispes Basilicata, Alberto Aliastro – ed il primo condotto sul territorio. Gran parte dei precari ammettono di lavorare in condizioni non ottimali, con una forte paura per le prospettive future».
«Lo studio – ha sottolineato il segretario nazionale Fp Cgil, Carlo Podda – apre finalmente un dibattito concreto sulla situazione, dopo tanto chiacchiericcio giornalistico. Un modo serio di affrontare il problema, e auspico che il metodo venga adottato anche in altre zone d’Italia».
23/1/2007
18.1.07
Cattedre vietate agli under 40
Ilaria Venturi
I giovani assunti sono meno del 10%
L´ateneo più antico imbianca. Nei capelli dei suoi professori. I trentenni in «cattedra» all´Alma Mater sono appena 36. A dirlo sono i dati del ministero a dicembre 2005: solo tre gli ordinari, che ora hanno 39 anni; 33 gli associati, il primo gradino di accesso al titolo di professore. In complesso, i docenti e ricercatori tra i 32 e i 38 anni sono 284 su circa 3.200 assunti.
Addio alla cattedra entro i quarant´anni. Il progressivo invecchiamento dell´Università italiana non esclude Bologna che conta, racconta l´Annuario 2005, oltre 650 ordinari e associati ultrasessantenni. Con una prospettiva ancora più allarmante. Chi lascerà il posto nei prossimi anni non farà spazio ai giovani.
Nessuna nuova assunzione sino al 2008 se non arriveranno i soldi dal governo. E´ lo stesso rettore ad annunciarlo: «Quest´anno e nel 2008 dovremo utilizzare le risorse liberate da chi va in pensione per pagare gli incrementi annuali di stipendio, che neppure decido io, di chi è già assunto». Una prospettiva che agita i presidi nelle Facoltà. Al punto che Santino Prosperi, alla guida di Veterinaria, lancia una provocazione: «Sono pronto al blocco degli aumenti pur di assumere i giovani». Il grande esodo dall´Alma Mater è previsto tra il 2012 e il 2013; da quest´anno al 2010 gli uffici stimano, per difetto, 230 «uscite dai ruoli». Poi ci sarà almeno il raddoppio, un ritiro di massa. Due fenomeni che viaggiano insieme. «Il problema c´è, occorre per questo una politica coraggiosa. Al di sopra dei 65 anni bisognerebbe cominciare a lasciare», commenta Prosperi che racconta di chi è in attesa. «Hanno meno di 30 anni, sono tutti andati all´estero, hanno dottorati e post-dottorati alle spalle e che prospettive hanno? Nessuna. In un anno potrei assumere sei, sette precari se si sbloccasse la situazione». Sull´invecchiamento il rettore frena. «Nella ricerca conta anche l´esperienza, non è questo che ingessa la ricerca. E´ vero, comunque, che le cose stanno peggiorando, un tempo si andava in cattedra prima, ma perché erano gli anni di massima espansione dell´Università».
Calzolari sposta il tiro: «Se mancano uscite laterali dall´Università non c´è salvezza, il problema è che la società non utilizza la ricerca, non offre ai giovani posizioni differenti. A Bologna abbiamo anticipato l´incremento dei ricercatori, 350 in tre anni. Ma il problema non si risolve». Per Ivano Dionigi, voce dei direttori di dipartimenti, «occorre attrezzarsi subito di fronte all´esodo di massa che arriverà tra un lustro e a fronte del fatto che si è persa almeno una generazione di arruolamento».
«Ai giovani è riservato solo precariato», dice Anna Borghi, voce della Rete dei ricercatori precari. Nelle Facoltà scientifiche il problema è più sentito. «Le persone formano il loro curriculum scientifico entro i 40 anni, per questo da noi il fenomeno è preoccupante, lo stiamo avvertendo», dice Lorenzo Donatiello, preside di Scienze. «Ormai diventare ricercatore a 30 anni, associato a 35 e ordinario a 40 è un miraggio». Amara conclusione.
(17 gennaio 2007)
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Ecco il rapporto dei sindacati sul precariato nell'Università
Tre storie, tre esempi di come vivono oggi i ricercatori precari nel mondo della scienza. Con stipendi che variano dagli 800 ai 1200 euro al mese e l’impossibilità di programmare la propria vita o di pensare a metter su famiglia. La conferma arriva da un rapporto curato dalla Nidil-Cgil sul mondo della precarietà nei settori dell’Università e della ricerca secondo il quale si tratta di stipendi molto inferiori alla media europea. Ma per i ricercatori scientifici il problema della precarietà è ancora più grave poiché spesso, trascorso un certo numero di anni, non possono rinnovare i contratti da ricercatore e ciò li spinge ad accettare altri tipi di contratti di collaborazione, con il risultato di allontanarsi dal percorso di carriera cui si sono dedicati interi anni. Una situazione che la Cgil definisce “allarmante”, se si considera che in Italia “il 60% di chi lavora nelle università nel settore ricerca non ha un contratto a tempo indeterminato.
Dal rapporto emerge anche che un ricercatore su quattro ha più di 35 anni e il 65% si lamenta della propria condizione economica. A fronte di stipendi minimi, i tempi lavorativi sono però notevoli: il 50% dei ricercatori, rileva la Nidil-Cgil, lavora oltre 38 ore alla settimana, con punte anche di 45 ore. Condizioni che spingono la maggioranza a scelte forzate sul piano della vita privata, tanto che l’82% degli interpellati non ha figli.
9.1.07
Atipici, meno di 800 euro a un lavoratore precario su tre
Anche il 20% dei ricercatori che guadagna più della media (più di 1.200 euro al mese) lavora più di 38 ore alla settimana. Ed è lo stesso orario che fa anche il 56% di chi guadagna tra 800 e 1.000 euro al mese e quasi il 60% tra i 1.000 e i 1.200 euro. Diverso è il caso degli orari di lavoro più bassi che permettono a stento di arrivare a 800 euro al mese. Tra chi ha un reddito inferiore a 800 euro al mese, poco meno del 40% lavora meno di 30 ore. Tra questi, più del 50% in realtà lavora meno di 20 euro per una retribuzione netta inferiore ai 400 euro.
Ad ogni modo, il 31% degli intervistati guadagna meno di 800 euro netti al mese. Se si somma anche il 26% di coloro che hanno una retribuzione mensile tra gli 800 e i 1.000 euro, il risultato è che un collaboratore su due guadagna meno di 1.000 euro al mese. E tra chi svolge le professioni più qualificate in ambito scientifico, il 52% guadagna tra gli 800 e i 1.200 euro al mese. Poco più del 20% ha stipendi un po´ più elevati, superiori comunque ai 1.200 euro. Tra quelli che eseguono professioni più esecutive, più del 65% guadagna meno di 800 euro al mese.
Analizzando gli orari di lavoro, emerge inoltre che il 72% dei tirocinanti lavora più di 38 ore alla settimana. Chi svolge lavori più esecutivi ha invece un orario tra le 30 e le 38 ore a settimana. Tra questi tuttavia, ben il 26% lavora con orario part-time (sono prevalentemente dei lavoratori e delle lavoratrici dei call center). Va ricordato infatti che il part-time è di fatto quasi un dato strutturale nei call center, perché adattandosi alla natura del lavoro, viene incontro ai bisogni dei datori di lavoro, permettendo di mantenere sempre alto il livello di attenzione degli operatori e consentendo di gestire i turni con un alto grado di flessibilità.
E il futuro? Non tutti vedono "rosa" anche perché si è precari sempre più in là con gli anni: uno su 4 ha più di 35 anni (26% del campione) e di questi circa la metà ha più di 40 anni. Le ripercussioni sulla famiglia sono immediate: basta pensare che l'82% degli interpellati non ha figli.
Pubblicato il: 06.01.07
Modificato il: 07.01.07
Lavoro. Sondaggio Isfol: italiani soddisfatti ma stressati
Roma, 9 gennaio 2007
Il 60% dei lavoratori italiani e' "abbastanza soddisfatto" del proprio lavoro, ma quasi il 30% si dichiara "stressato". Lo rivela la seconda indagine su "La qualità del lavoro in Italia" 2006, realizzata dall'Isfol (Istituto per lo Sviluppo e la Formazione Professionale dei Lavoratori) .
Sono stati presi in esame tutti gli occupati sia dipendenti che autonomi, di ogni settore produttivo, sia pubblico che privato, ogni dimensione di impresa, sia lavoratori standard che atipici.
In aumento i lavoratori sotto pressione rispetto al 2002
I piu' insoddisfatti (oltre il 20%) sono i precari, con riferimento soprattutto ai compiti svolti, ai livelli retributivi e all'attenzione delle imprese per la sicurezza e la salute sul lavoro.
Ma lo stress non si rivela l'unico nemico dei lavoratori: le insoddsfazioni per gli impieghi e la difficoltà di cambiamenti e crescite professionali si aggiungono alla lista dei problemi dell'ambiente lavorativo italiano.
Cambiare lavoro: il sogno impossibile degli italiani
Un lavoratore su cinque si propone di cambiare impiego a causa dell’insoddisfazione per la busta paga e la disillusione per le prospettive di carriera che non soddisfano a pieno i lavoratori, cosi come le attuali retribuzioni. Questi i maggiori motivi di malcontento dei lavoratori italiani, a cui si aggiunge la difficoltà di trovare un'impiego che soddifi le necessità.
Le carriere "ingessate"
Il malcontento lavorativo si accompagna alla preoccupazione per le scarse prospettive di avanzamento e crescita professionale. Altre indagini, nel passato, avevano dimostrato come l'Italia sia uno dei Paesi in cui la mobilità professionale è assai scarsa. Per la maggior parte degli occupati che hanno cambiato almeno una volta mestiere durante la propria vita lavorativa non vi è stato nessun miglioramento in termini di affermazione e carriera professionale, nè miglioramenti nella retribuzione.
''La maggiore flessibilità' del mercato del lavoro - avverte l'Isfol - non sembra dunque aver aumentato le probabilità di crescita professionale''.
Secondo i recenti dati , il 21% degli italiani non ha mai cambiato azienda durante l’arco della propria carriera professionale e il 47% lo ha fatto tra una e 5 volte. Solo il 3% più di sei volte. Il 28% lavora con lo stesso datore di lavoro da più di dieci anni e il 13% da almeno sei anni. Solo il 3% da meno di un anno. E tra chi cambia spesso è perché ci si trova in qualche modo costretti a passare da azienda in azienda più perché costretti che di propria scelta.
La poca mobilità impedisce ai lavoratori la crescita di carriera, e causa, oltre allo stress, il malcontento nell'ambito lavorativo.
"Relativamente all'aumento dello stress - ha dichiarato Sergio Trevisanato, presidente dell'Isfol- occorre dare maggiori garanzie sul mantenimento del posto di lavoro o anche una serie di servizi legati allo sviluppo della famiglia e
dell'attivita' privata. Cosi' le amministrazioni pubbliche potrebbero venire incontro a questi problemi. Superato questo aspetto - ha aggiunto - ovremmo trovare delle risposte piu' complete anche su altri versanti e servizi che possano sopperire a carenze". E per essere chiari cita le "garanzie nel settore bancario, soprattutto nella concessione di prestiti a mutui a giovani".
4.1.07
Precari, la carica dei "nuovi" 150Mila: età media 40 anni
150mila nuovi docenti assunti nei prossimi tre anni saranno già vecchi
Il programma pluriennale di immissioni in ruolo è previsto dalla Finanziaria 2007. L'alto numero farebbe pensare a una robusta iniezione di forze fresche in cattedra. Ma non è così: l'età media di chi otterrà la nomina sarà intorno ai 40 anni, tra le più alte d'Europa. E gli insegnanti immessi in ruolo avranno in comune gli anni difficili trascorsi da supplenti, cominciati con gli incarichi brevi e proseguiti fino al traguardo delle nomine annuali. Un percorso sfiancante che può durare anche più di dieci anni, tra continui cambi di sede, di colleghi e - ovviamente - di studenti.
Con queste premesse diventa facile comprendere che gran parte dei nuovi assunti saranno demotivati e, soprattutto, sfibrati dalla lunga marcia verso la cattedra. Considerato che l'età per la pensione scatta a 65 anni, si tratta di docenti che resteranno in servizio per almeno venti anni. E' uno dei motivi che rende molto arduo parlare di ronnovamento nella scuola. Gran parte dei supplenti entrerà in ruolo tra i 45 e i 55 anni.
Ma per gli aspiranti docenti non è solo questione di anagrafica: mancano selezione e formazione specifica. Così, anche per le prossime immissioni in ruolo non sarà possibile applicare alcuna valutazione di merito, ma solo far scorrere la famigerata graduatoria permanente. La superlista che, di fatto, ha trasformato i supplenti in disoccupati organizzati, dove si va avanti a colpi di punteggi legati soltanto ai titoli di studio e all'anzianità di servizio.
Secondo l'ultimo dossier pubblicato dall'associazione Treellle (Oltre il precariato) gli iscritti alla graduatoria permanente sono oltre 43 mila. Il 31% è già di ruoli, ma mira a cambiare insegnamento anche se "non dovrebbe stare in una lista che serve per l'assunzione dei precari", osserva Treelle. Il 53% appartiene all'area umanistica. La finanziaria 2007 tenta di mettere ordine bloccando l'accesso alle graduatorie permanenti, a parte alcuni casi, trasformandole in elenchi "a esaurimento". Ma la superfila di chi preme per insegnare è lunghissima. E per le classi di concorso legate alle discipline linguistico-letterarie il periodo di esaurimento è stimanto in decine di anni.
Gli insegnanti a tempo indeterminato sono 711mila ai quali ogni anno si aggiungono 242 docenti supplenti (124mila con contratti annuali, 118mila con nomine brevi). Altri 90mila sono prossimi all'abilitazione, tra corsi e escuole universitarie di specializzazione. Infine, ai precari vanno sommati anche gli aspiranti iscritti nelle graduatorie di istituto, che sarebbero 56 mila.
"la graduatoria nazionale permanente di precari rappresenta un caso unico in Europa", è scritto ancora nella ricerca di Treelle. L'esubero di docenti in Italia, con il connesso fenomeno del precariato, è un'anomalia:"La maggior parte dei Paesi europei ha il problema opposto di una carenza di insegnanti", aggiunge Treelle.
Intervenire in un simile contesta diventa quasi un rompicapo. Da un lato l'esigenza di impostare un percorso unico di formazione specifica per gli insegnanti, collegato alle reali esigenze di posto. Dall'altro la necessità di stabilizzare centinaia di migliaia di supplenti che da anno consentono alla scuola di funzionare. In gioco la qualtià, l'innovazione e la competitività dell'intero sistema-istruzione sullo scenario europeo
Vincono le donne
39anni
Età media precari
L'età media dei 242 iscritti alla graduatoria naizonale permanente (nel 2003) sfiora i 40 anni. L'età media degli insegnanti di ruolo a tempo indeterminato è di 48 anni
83%
Tasso di femminilizzazione
Tra gli insegnanti di ruolo la percentuale di donne è leggermente più bassa: 79%
63%
Dal sud e dalle Isole
Più della metà dei precari viene dalle Regioni del Sud e dalle Isole. Il 12% sono inoltre iscritti in graduatoria di regione diversa da quella di titolarità
18.12.06
L’odissea di chi cerca lavoro in Sicilia e Puglia due anni per un posto
Indagine Isfol: nelle regioni del Sud più di venti mesi per un impiego. Tra quattro e sei mesi invece in Lombardia, Friuli, Trentino e Umbria. Come cambiano i tempi di ricerca, la mobilità geografica e quanto si impiega per andare in ufficio nelle regioni italiane.
REGIONI: quanto ci vuole per un lavoro.
LAVORO ATIPICO: % per regione.
TROVARE LAVORO IN EUROPA: dove è facile e dove è difficile.
CASA-UFFICIO: i tempi di percorrenza.
ISFOL: "Premiare la qualità".
BLOG: RACCONTA LA TUA ESPERIENZA
di FEDERICO PACE
I centri per l’impiego, qualche sede delle agenzie per il lavoro. Curriculum spediti a centinaia in risposta agli annunci letti sui giornali e sui siti web. Qualche telefonata in giro. Persino un po’ di lavoro nero. I tentativi tanti, ma i risultati pochi. “Io ho fatto di tutto - racconta L.P., neolaureato di Catania - ho cercato per mesi e bussato a tante porte. Dopo quasi un anno senza risposte, ho deciso di fare un master, ma poi, alla fine, ho trovato solo uno stage di pochi mesi in un’impresa di Milano. Adesso che è finito non so più cosa fare”. Già, adesso, non resta che mettersi di nuovo a cercare.
Nonostante i posti siano sempre più atipici, flessibili o precari, per trovare un impiego ci si impiega sempre più tempo. Anche, e soprattutto, in quelle regioni dove il lavoro è meno standard. E così si apre ancora di più il divario tra le due Italie. E il lavoro diventa il termometro più spietato di una febbre che non accenna a scendere. Nelle regioni del Mezzogiorno, la ricerca di lavoro pare divenire sempre più una specie di odissea dove il tempo non trascorre mai o trascorre troppo rapidamente senza mai portare frutti.
Secondo i dati dell’indagine Plus dell’Isfol, sono i siciliani e i pugliesi quelli che più di ogni altro si ritrovano a dovere fare i conti con una ricerca che sembra non finire mai. In Sicilia, Puglia e Basilicata la durata media di ricerca di lavoro è di oltre ventidue mesi (vedi tabella). Ma anche in Calabria, Campania e Molise si superano i 19 mesi.
“Alle persone preme soprattutto trovare il lavoro in tempi brevi – ci ha detto Emiliano Mandrone, responsabile dell’indagine Plus (leggi l'intervista integrale) – Infatti dal punto di vista individuale ci si aspetta che la flessibilità riduca i tempi di ricerca di lavoro. Rimarchiamo che se la flessibilità assorbe i disoccupati è buona, ma è cattiva se riduce la stabilità e aumenta la precarietà degli occupati. Invece noi ci accorgiamo che la precarietà del lavoro è su livelli più alti al Sud che al Nord, con esiti preoccupanti a medio termine. Il mercato del lavoro del Sud assorbe poco, con tempi, quote e mesi di permanenza nella disoccupazione maggiori rispetto al Centro-Nord. Se al Nord il mercato tende al tipo anglosassone (se io perdo un lavoro, lo ritrovo velocemente), al Sud, invece, perdere il lavoro vuol dire entrare in un percorso di prove ed errori, di concorsi che non si fanno, di iniziative che partono e poi muoiono, se non anche di iniziative capestro. Con risvolti demoralizzanti.”
Si perché la probabilità di avere un lavoro standard al Sud è molto meno elevata che altrove. In Calabria e Puglia è atipico quasi un lavoro su cinque (il 18%). Elevate le proporzioni anche in Sicilia e Sardegna (vedi tabella). E’ il Piemonte invece la regione dove prevale significativamente il lavoro standard.
Spesso le scelte al Sud sono influenzate anche dal contesto familiare. Ed è proprio nelle regioni dove le pressioni familiari sono più elevate che sale la disponibilità ad accettare un lavoro qualunque. E non conta più se un lavoro è “buono” o meno. La stabilità nel tempo dell’occupazione del partner, scrivono gli autori dell’indagine, aumenta in maniera significativa la soglia di accettazione media per le offerte di lavoro. E così si osserva una forte polarizzazione tra Mezzogiorno da un lato e Centro-Nord dall’altro. In Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, ovvero la quota di persone con un partner con lavoro sicuro è più bassa (intorno all’80%) sale di molto la percentuale di chi si dice disposto a lavorare immediatamente (più del 25%). Mentre in Regioni come Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia dove la quota di persone con partner con un posto sicuro è molto elevata (sopra al 90%) la disponibilità immediata a lavorare anche di chi non ha un lavoro scende in maniera sensibile (tra il 7 e il 9%).
Ma vediamo dove le cose vanno meglio. La regione dove si impiega meno tempo per trovare un impiego è il Trentino Alto Adige dove ai disoccupati in media bastano poco più di quattro mesi. Dinamici anche i mercati della Lombardia (6,8 mesi), Friuli Venezia Giulia (6,9 mesi) ed Emilia Romagna (7,2). Nel Lazio invece si attende un anno circa prima di riuscire a trovare un impiego.
Nelle città europee, secondo i dati dell’Urban Audit Perception Survey, trovare lavoro viene considerato difficile mediamente dal 60% degli intervistati. Le città dove trovare lavoro sembra meno complicato sono Dublino, Manchester, Londra, Helsinki, Parigi e Amsterdam. A Dublino il 47% ritiene che in qualche modo sia semplice trovare un lavoro. All'altro estremo della classifica si trovano Napoli, Berlino, Lisbona, Lipsia e Torino (vedi tabella).
In Italia, dati Cnel-Istat, le persone alla ricerca di un impiego sono quasi due milioni. Più donne (985 mila) che uomini (899 mila). Di questi, 212mila sono laureati, circa 700mila hanno un diploma, altri 700mila la licenza media e 200mila la licenza elementare. Dei 212mila laureati la gran parte (134mila) sono donne mentre gli uomini sono solo 78 mila.
Quanto alla mobilità, circa il dieci per cento dei lavoratori in Italia si sono spostati dalla propria residenza originaria per una nuova. Sette su cento hanno cambiato regione. E’ al Sud che la quota dei lavoratori raggiunge livelli più elevati seppure ancora lontani dalle cifre di una volta. Il 16% dei lavoratori del Sud si sono spostati per lo più al Nord Ovest (il 6,9%) e al Nord Est (il 5,2%). Ma molti sono anche quelli che hanno cambiato residenza pur rimanendo nel Mezzogiorno (il 20,9). A muoversi oggi, a cambiare provincia di residenza, sono soprattutto i laureati (il 15%). E soprattutto ci si sposta per un lavoro a tempo indeterminato. Un sogno, però, difficile da realizzare.
CLASSIFICA REGIONI:
Quanto ci vuole per trovare un lavoro
INTERVISTA:
Emiliano Mandrone, Isfol, responsabile indagine Plus "Premiare la qualità"
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La classifica per regione
TROVARE LAVORO IN EUROPA: Le città dove è facile e dove è difficile
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11.12.06
Scuola: Ci vorranno dieci anni per assumere in ruolo tutti i precari
Quanto tempo ci vorra' per immetterli tutti in ruolo? Facciamo un po'di conti
L'emendamento presentato dal Governo che prevede di trasformare le graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento, dispone anche che esse siano aggiornate, per l'ultima volta, per il biennio 2007-2008, consentendo pertanto l'inclusione di altri docenti, oltre ai 237.269 che attualmente risultano in posizione attiva (secondo la verifica del MPI).
Saranno recuperati per questa ultima chiamata i docenti che oggi frequentano i corsi abilitanti speciali, i corsi delle SiSS e i corsi di laurea in scienze della formazione primaria, per un totale complessivo che potrebbe essere stimato tra le 50 e le 60 mila unita'.
Alla fine di quest'ultimo recupero, i precari effettivi potrebbero arrivare complessivamente a circa 300 mila unita'.
Quanto tempo ci vorra' per immetterli tutti in ruolo? Facciamo un po' di conti.
Se il ministero dell'istruzione riuscira' a "sterilizzare", almeno in parte, l'effetto dei tagli di decine di migliaia di posti di organico previsti dalla finanziaria, nel prossimo triennio potrebbero andare in ruolo 130-140 mila insegnanti (quasi l'intera quota dei 150 mila di cui parla la finanziaria).
Sperando che davvero si riesca entro il 2010 ad immettere in ruolo le quantita' programmate, rimarrebbero iscritti nelle graduatorie ad esaurimento almeno altri 150 mila docenti, per il cui reclutamento dipendera' molto dal ritmo dei pensionamenti (il viceministro Bastico ne stimava 30 mila all'anno): potrebbero essere necessari, a meno che non si creino negli anni nuovi posti ad oggi non prevedibili, almeno altri cinque anni.
Si concluderebbe dunque questa operazione di maxireclutamento intorno al 2015, sempre che nel frattempo non vengano banditi nuovi concorsi a cui andrebbe meta' dei posti disponibili.
In tal caso le graduatorie si esaurirebbero non in cinque, bensi' in dieci anni, nel 2020. E a quel punto alcuni precari. potrebbero essere andati in pensione per raggiunti limiti di eta'.
1.12.06
Su 10 assunti nei Servizi, 9 sono precari
Su 10 assunti nei Servizi, 9 sono precari
Alessandro Abbadir
La Cgil lancia un appello ai Comuni: «Appalti solo a chi ha manodopera fissa»
DOLO. Il precariato sta diventando una vera piaga per la Riviera del Brenta e il Miranese. Qui nel giro di un anno i posti di lavoro precari sono aumentati del 25%. Ora i precari o lavoratori flessibili nei 17 comuni sfiorano le 10 mila unità e sono destinati ad aumentare. Il sindacato chiede una moratoria ai Comuni: date lavoro in appalto solo a ditte che non usano manodopera precaria.
«A chiedere sempre più precari sono le piccole e medie imprese della zona che - spiega Ezio De Rossi segretario della Cgil e della Riviera e del Miranese - puntano a licenziare e a riassumere a tempo determinato o con contratti come il coordinato continuativo e quello a progetto». Secondo De Rossi il precariato in Riviera e nel Miranese sta prendendo piede soprattutto nel settore dei Servizi. «In questo settore - spiega - i problemi sono legati ad una volontà delle aziende di assumere solo precari. La percentuale sfiora il 90 % delle assunzioni. C’è da chiedersi come può un giovane progettare il futuro con una situazione sociale di questo tipo. I giovani più colpiti poi sono quelli che hanno un grado di istruzione più alto. In settori come l’edilizia o il tessile invece si punta a fideizzare l’operaio anche se il fenomeno del tempo determinato ormai raggiunge percentuali che arrivano al 30 % della manodopera in metà delle aziende». Per ciò che riguarda la produzione i valori per il sindacato non sono buoni: ci sono valori positivi nel settore metalmeccanico, nei servizi e nella gomma-plastica. Il settore edile cresce solo del 0,2%, mentre il tessile calzaturiero registra una contrazione del 1,3%. Male l’occupazione nel settore metalmeccanico dove si registra un calo pari al 2%, nei servizi un saldo positivo del 1,5%. E’ entrato in una fase di stagnazione il settore edile. Insomma nonostante il lavoro precario sia utilizzato come metodo, l’occupazione non cresce. Stabile il settore chimico con licenziamenti e messa in mobilità aumentate del 5% rispetto allo scorso anno. Vanno bene Nuova Pansac e Reckitt Benckiser. Per De Rossi il governo e il sottosegretario Franca Donaggio, che è mirese, dovrebbero dare risposte più forti. In attesa di una revisione della Legge Biagi la Cgil lancia l’idea di una moratoria degli appalti con precari all’interno delle pubbliche amministrazioni. «Chiediamo ai Comuni - dice - di non dare appalti ad aziende che utilizzano la manodopera precaria in maniera massiccia. Questo dovrebbe diventare un principio etico discriminante da far partire da questo territorio come esempio». In realtà sono gli stessi Comuni a usare personale precario. La Cgil auspica un assorbimento in pianta stabile di tutti i giovani che vi lavorano, con nuove manovre finanziarie del governo.
(01 dicembre 2006)