PRECARITY WEBRING
Meeting europeo sul Welfare
Roma - 20_22 Aprile 2007
Ricominciamo a dire Europa. È questo un compito politico oggi ineludibile, all’altezza dei conflitti e della composizione del lavoro vivo che negli ultimi anni si sono prodotti. Ricominciare a dire Europa, tuttavia, non significa semplicemente individuare un ambito generale in cui far convergere le specificità locali. Significa invece tentare di rovesciare il punto di vista: partire cioè dall’orizzonte europeo come terreno di lotta politica, di ricomposizione dei conflitti e di misurazione dei rapporti di forza. Questo è quanto ci lascia in eredità l’esperienza dell’EuroMayDay process, ma anche la sua crisi, determinata – al di là delle specificità, appunto – forse proprio dalla mancata assunzione di quello europeo come immediato spazio di azione. A questo si aggiunge la difficoltà di elaborare un discorso e una pratica nuovamente forti sul terreno della precarietà, laddove le forme di cattura istituzionale hanno in buona parte edulcorato quello che si era riusciti a imporre come nodo politico dirimente.
Da queste due esigenze nasce l’esperienza del Precarity_WebRing, che mette in rete differenti esperienze continentali di movimento e inchiesta militante. L’Europa è assunta al contempo come punto di vista e posta in palio. In questo spazio, il problema è di produrre discorso politico, lessico comune e percorsi di conflitto. Da qui l’esigenza di costruire un ciclo di seminari itinerante a livello europeo, il primo dei quali si svolgerà a Roma da venerdì 20 a domenica 22 aprile. Il primo tema scelto è la crisi del welfare. Chiariamo subito il presupposto, metodologico e politico: la crisi del welfare sarà analizzato come processo ambivalente. In altri termini, non c’è nessuna nostalgia per il welfare-state, perché esso è stato messo radicalmente in discussione dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta prima ancora che dall’attacco “neoliberista”. Il problema è far emergere il segno di parte e le condizioni di possibilità per lo sviluppo dell’autonomia dei movimenti e per nuove lotte e claims. La crisi del welfare è inoltre uno dei framework attraverso cui è possibile analizzare alcuni dei tratti forti delle mobilitazioni europee degli ultimi anni, dai migranti all’università, che saranno al centro delle prime due sessioni di discussione. La terza riguarderà la questione dei diritti sociali, tentando di problematizzare il lessico che ha caratterizzato buona parte del movimento globale.
A partire dalla prima tappa dei seminari del Precarity_WebRing proveremo dunque a muoverci dentro una nuova fase rispetto all’Europa e alla precarietà, pronti a metterlo immediatamente e continuamente alla prova delle prossime mobilitazioni – a cominciare dal contro-vertice di Rostock del prossimo giugno –, con l’obiettivo comune di produrre percorsi di inchiesta militate, sperimentare nuove forme organizzative e fare rete tra i conflitti.
Programma del meeting
Venerdì 20 aprile (Facoltà di Scienze Politiche “La Sapienza” – sala professori)
Ore 10.30-13 Discussione su mappe, cartografie e inchieste militanti
Ore 14.30 Relazione introduttiva sulla crisi del welfare
Ore 15-19 1° sessione: Migrazioni e lavoro di cura
Sabato 21 aprile (Esc – Via dei Reti 15)
Ore 10.30-13 2° sessione: Università e formazione
Ore 14.30-18.30 3° sessione: Diritti sociali e critica del lessico dei diritti
Domenica 22 aprile (Esc – Via dei Reti 15)
Ore 10.30 riunione del Precarity_WebRing
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26.2.07
In Europa un esercito di 37 milioni di precari
dall'unità on line
Bruno Ugolini
Senza frontiere. Trenta milioni di donne e di uomini. Tutti con contratti «atipici» ovverosia a tempo. Abitano l'Europa allargata, quella composta di 25 Paesi. Un vero e proprio esercito di persone che non hanno la sicurezza del proprio lavoro. Anche se molti affermano che non bisogna stupirsi perché sarebbe un fenomeno connaturato alla fine del cosiddetto fordismo, un vecchio, superato modo di produrre. Oggi, per produrre, sarebbe necessaria un'estesa flessibilità e, naturalmente, la privazione di elementari diritti e tutele.
Del resto quel dato impressionante dei 30 milioni è già superato. Risale al 2005. Ora, nel 2007, siamo a 37 milioni. La crescita è vertiginosa se si pensa che nel 2000 erano 25 milioni. Un balzo del 12,6 per cento. Sono numeri e statistiche raccolte in uno studio («I lavori precari in Europa») curato dalla Confederazione europea dei sindacati e annesso ad una risoluzione sulla contrattazione collettiva. Lo studio è stato poi tradotto e pubblicato da Conquiste del lavoro, il quotidiano della Cisl. Ed è interessante annotare come il panorama europeo registri i progressi fatti in alcuni Paesi, ma anche notevoli situazioni di regresso. La Spagna, ad esempio, registra sei milioni di lavoratori temporanei, cinque milioni in Inghilterra, in Francia l'80 per cento delle assunzioni sono per contratti a termine. C'è anche l'Italia, qui catalogata con un po' d'enfasi, visto che si dichiarano tre milioni tutti «falsi lavoratori autonomi».
Ma ecco comparire, nella Grande Germania, i mini-jobs. Sono lavori che interessano sei milioni di persone, e solo una parte di loro (un milione e 400 mila) li adottano come secondo lavoro. Gli altri campano con 400 euro il mese, senza limitazioni dell'orario di lavoro. La denuncia sindacale s'indirizza altresì nei confronti del lavoro interinale, spesso utilizzato dagli imprenditori «per minare la posizione contrattuale delle organizzazioni sindacali». Capita in tal modo che le richieste salariali considerate eccessive siano punite con il ricorso al lavoro in affitto.
Diversa in parte la situazione in Belgio dove il principale problema identificato fa ricordare i nostri falsi lavoratori a progetto. Capita, infatti, che le imprese ricorrano a lavoratori chiamati autonomi provenienti dall'Europa centrale e orientale. Questo per aggirare il pagamento di salari derivanti dalla contrattazione collettiva, se non addirittura il salario minimo fissato per legge. Più roseo il panorama
nei Paesi Bassi dove la popolazione lavorativa flessibile si è ridotta dal 10,3 del 1998 al 6,6 del 2003. C'è però da dire che la liberalizzazione introdotta nel lavoro interinale ha fatto sì che un lavoratore su quattro operi per agenzie che non versano i contributi previdenziali o che non corrispondono i salari stabiliti dalla contrattazione.
È interessante poi osservare la situazione che si sta determinando nei Paesi dell'Est. Ad esempio in Slovacchia si permette il ricorso ai contratti a tempo determinato per un periodo di tre anni. Ma «qualora vi siano le giustificazioni per farlo» la pratica può essere estesa a tempo indefinito. Una specie d'assegno in bianco agli imprenditori. Inoltre tali rapporti di lavoro possono essere rescissi da un momento all'altro. Esistono poi «falsi lavoratori autonomi», sotto l'etichetta di «licenze commerciali». Mentre in Polonia si annota un balzo enorme: i lavoratori a tempo determinato sono passati dal 4 per cento del 1999 al 26 per cento del 2005. Rappresentano il 60 per cento dei giovani.
Secondo l'analisi dei sindacati europei, l'eccessiva flessibilità spinge gli imprenditori a considerare i lavoratori «come un bene dal quale ci si può facilmente privare in caso di difficoltà». E quindi non s'investe nella loro formazione. La percentuale di quanti hanno ricevuta formazione è, infatti, calata dal 30,6 per cento del 2000 al 27,3% del 2005. E tra gli interinali solo il 18 per cento riceve una formazione. Inoltre la necessità dell’apprendimento permanente è spesso negata ai flessibili a causa della loro condizione: bassi salari, lungo orario di lavoro, rapporti di lavoro gerarchici. Tutti elementi che «demotivano le aspirazioni verso il miglioramento delle proprie capacità». Così costoro «non mostrano un forte attaccamento all'impresa e presentano una scarsa motivazione a collaborare».
È significativo il fatto che gli studiosi della Ces considerino come la migliore esemplificazione della precarietà il caso Italia. Qui, scrivono, il precedente governo Berlusconi ha introdotto «diverse tipologie di contratti di lavoro che permettono di destabilizzare i diritti essenziali». La polemica europea investe anche una tesi, cara ad una parte dei giuslavoristi italiani: l'estensione della precarietà deriverebbe dall'eccessiva protezione di cui godono i lavoratori assunti con contratti standard. La via d'uscita? Tra i punti indicati dalla Ces ve n'è uno: «Promuovere comportamenti positivi dei datori di lavoro offrendo incentivi fiscali e parafiscali a coloro che non fanno ricorso al lavoro precario».
Pubblicato il: 25.02.07
Bruno Ugolini
Senza frontiere. Trenta milioni di donne e di uomini. Tutti con contratti «atipici» ovverosia a tempo. Abitano l'Europa allargata, quella composta di 25 Paesi. Un vero e proprio esercito di persone che non hanno la sicurezza del proprio lavoro. Anche se molti affermano che non bisogna stupirsi perché sarebbe un fenomeno connaturato alla fine del cosiddetto fordismo, un vecchio, superato modo di produrre. Oggi, per produrre, sarebbe necessaria un'estesa flessibilità e, naturalmente, la privazione di elementari diritti e tutele.
Del resto quel dato impressionante dei 30 milioni è già superato. Risale al 2005. Ora, nel 2007, siamo a 37 milioni. La crescita è vertiginosa se si pensa che nel 2000 erano 25 milioni. Un balzo del 12,6 per cento. Sono numeri e statistiche raccolte in uno studio («I lavori precari in Europa») curato dalla Confederazione europea dei sindacati e annesso ad una risoluzione sulla contrattazione collettiva. Lo studio è stato poi tradotto e pubblicato da Conquiste del lavoro, il quotidiano della Cisl. Ed è interessante annotare come il panorama europeo registri i progressi fatti in alcuni Paesi, ma anche notevoli situazioni di regresso. La Spagna, ad esempio, registra sei milioni di lavoratori temporanei, cinque milioni in Inghilterra, in Francia l'80 per cento delle assunzioni sono per contratti a termine. C'è anche l'Italia, qui catalogata con un po' d'enfasi, visto che si dichiarano tre milioni tutti «falsi lavoratori autonomi».
Ma ecco comparire, nella Grande Germania, i mini-jobs. Sono lavori che interessano sei milioni di persone, e solo una parte di loro (un milione e 400 mila) li adottano come secondo lavoro. Gli altri campano con 400 euro il mese, senza limitazioni dell'orario di lavoro. La denuncia sindacale s'indirizza altresì nei confronti del lavoro interinale, spesso utilizzato dagli imprenditori «per minare la posizione contrattuale delle organizzazioni sindacali». Capita in tal modo che le richieste salariali considerate eccessive siano punite con il ricorso al lavoro in affitto.
Diversa in parte la situazione in Belgio dove il principale problema identificato fa ricordare i nostri falsi lavoratori a progetto. Capita, infatti, che le imprese ricorrano a lavoratori chiamati autonomi provenienti dall'Europa centrale e orientale. Questo per aggirare il pagamento di salari derivanti dalla contrattazione collettiva, se non addirittura il salario minimo fissato per legge. Più roseo il panorama
nei Paesi Bassi dove la popolazione lavorativa flessibile si è ridotta dal 10,3 del 1998 al 6,6 del 2003. C'è però da dire che la liberalizzazione introdotta nel lavoro interinale ha fatto sì che un lavoratore su quattro operi per agenzie che non versano i contributi previdenziali o che non corrispondono i salari stabiliti dalla contrattazione.
È interessante poi osservare la situazione che si sta determinando nei Paesi dell'Est. Ad esempio in Slovacchia si permette il ricorso ai contratti a tempo determinato per un periodo di tre anni. Ma «qualora vi siano le giustificazioni per farlo» la pratica può essere estesa a tempo indefinito. Una specie d'assegno in bianco agli imprenditori. Inoltre tali rapporti di lavoro possono essere rescissi da un momento all'altro. Esistono poi «falsi lavoratori autonomi», sotto l'etichetta di «licenze commerciali». Mentre in Polonia si annota un balzo enorme: i lavoratori a tempo determinato sono passati dal 4 per cento del 1999 al 26 per cento del 2005. Rappresentano il 60 per cento dei giovani.
Secondo l'analisi dei sindacati europei, l'eccessiva flessibilità spinge gli imprenditori a considerare i lavoratori «come un bene dal quale ci si può facilmente privare in caso di difficoltà». E quindi non s'investe nella loro formazione. La percentuale di quanti hanno ricevuta formazione è, infatti, calata dal 30,6 per cento del 2000 al 27,3% del 2005. E tra gli interinali solo il 18 per cento riceve una formazione. Inoltre la necessità dell’apprendimento permanente è spesso negata ai flessibili a causa della loro condizione: bassi salari, lungo orario di lavoro, rapporti di lavoro gerarchici. Tutti elementi che «demotivano le aspirazioni verso il miglioramento delle proprie capacità». Così costoro «non mostrano un forte attaccamento all'impresa e presentano una scarsa motivazione a collaborare».
È significativo il fatto che gli studiosi della Ces considerino come la migliore esemplificazione della precarietà il caso Italia. Qui, scrivono, il precedente governo Berlusconi ha introdotto «diverse tipologie di contratti di lavoro che permettono di destabilizzare i diritti essenziali». La polemica europea investe anche una tesi, cara ad una parte dei giuslavoristi italiani: l'estensione della precarietà deriverebbe dall'eccessiva protezione di cui godono i lavoratori assunti con contratti standard. La via d'uscita? Tra i punti indicati dalla Ces ve n'è uno: «Promuovere comportamenti positivi dei datori di lavoro offrendo incentivi fiscali e parafiscali a coloro che non fanno ricorso al lavoro precario».
Pubblicato il: 25.02.07
18.12.06
L’odissea di chi cerca lavoro in Sicilia e Puglia due anni per un posto
18 dicembre 2006
Indagine Isfol: nelle regioni del Sud più di venti mesi per un impiego. Tra quattro e sei mesi invece in Lombardia, Friuli, Trentino e Umbria. Come cambiano i tempi di ricerca, la mobilità geografica e quanto si impiega per andare in ufficio nelle regioni italiane.
REGIONI: quanto ci vuole per un lavoro.
LAVORO ATIPICO: % per regione.
TROVARE LAVORO IN EUROPA: dove è facile e dove è difficile.
CASA-UFFICIO: i tempi di percorrenza.
ISFOL: "Premiare la qualità".
BLOG: RACCONTA LA TUA ESPERIENZA
di FEDERICO PACE
I centri per l’impiego, qualche sede delle agenzie per il lavoro. Curriculum spediti a centinaia in risposta agli annunci letti sui giornali e sui siti web. Qualche telefonata in giro. Persino un po’ di lavoro nero. I tentativi tanti, ma i risultati pochi. “Io ho fatto di tutto - racconta L.P., neolaureato di Catania - ho cercato per mesi e bussato a tante porte. Dopo quasi un anno senza risposte, ho deciso di fare un master, ma poi, alla fine, ho trovato solo uno stage di pochi mesi in un’impresa di Milano. Adesso che è finito non so più cosa fare”. Già, adesso, non resta che mettersi di nuovo a cercare.
Nonostante i posti siano sempre più atipici, flessibili o precari, per trovare un impiego ci si impiega sempre più tempo. Anche, e soprattutto, in quelle regioni dove il lavoro è meno standard. E così si apre ancora di più il divario tra le due Italie. E il lavoro diventa il termometro più spietato di una febbre che non accenna a scendere. Nelle regioni del Mezzogiorno, la ricerca di lavoro pare divenire sempre più una specie di odissea dove il tempo non trascorre mai o trascorre troppo rapidamente senza mai portare frutti.
Secondo i dati dell’indagine Plus dell’Isfol, sono i siciliani e i pugliesi quelli che più di ogni altro si ritrovano a dovere fare i conti con una ricerca che sembra non finire mai. In Sicilia, Puglia e Basilicata la durata media di ricerca di lavoro è di oltre ventidue mesi (vedi tabella). Ma anche in Calabria, Campania e Molise si superano i 19 mesi.
“Alle persone preme soprattutto trovare il lavoro in tempi brevi – ci ha detto Emiliano Mandrone, responsabile dell’indagine Plus (leggi l'intervista integrale) – Infatti dal punto di vista individuale ci si aspetta che la flessibilità riduca i tempi di ricerca di lavoro. Rimarchiamo che se la flessibilità assorbe i disoccupati è buona, ma è cattiva se riduce la stabilità e aumenta la precarietà degli occupati. Invece noi ci accorgiamo che la precarietà del lavoro è su livelli più alti al Sud che al Nord, con esiti preoccupanti a medio termine. Il mercato del lavoro del Sud assorbe poco, con tempi, quote e mesi di permanenza nella disoccupazione maggiori rispetto al Centro-Nord. Se al Nord il mercato tende al tipo anglosassone (se io perdo un lavoro, lo ritrovo velocemente), al Sud, invece, perdere il lavoro vuol dire entrare in un percorso di prove ed errori, di concorsi che non si fanno, di iniziative che partono e poi muoiono, se non anche di iniziative capestro. Con risvolti demoralizzanti.”
Si perché la probabilità di avere un lavoro standard al Sud è molto meno elevata che altrove. In Calabria e Puglia è atipico quasi un lavoro su cinque (il 18%). Elevate le proporzioni anche in Sicilia e Sardegna (vedi tabella). E’ il Piemonte invece la regione dove prevale significativamente il lavoro standard.
Spesso le scelte al Sud sono influenzate anche dal contesto familiare. Ed è proprio nelle regioni dove le pressioni familiari sono più elevate che sale la disponibilità ad accettare un lavoro qualunque. E non conta più se un lavoro è “buono” o meno. La stabilità nel tempo dell’occupazione del partner, scrivono gli autori dell’indagine, aumenta in maniera significativa la soglia di accettazione media per le offerte di lavoro. E così si osserva una forte polarizzazione tra Mezzogiorno da un lato e Centro-Nord dall’altro. In Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, ovvero la quota di persone con un partner con lavoro sicuro è più bassa (intorno all’80%) sale di molto la percentuale di chi si dice disposto a lavorare immediatamente (più del 25%). Mentre in Regioni come Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia dove la quota di persone con partner con un posto sicuro è molto elevata (sopra al 90%) la disponibilità immediata a lavorare anche di chi non ha un lavoro scende in maniera sensibile (tra il 7 e il 9%).
Ma vediamo dove le cose vanno meglio. La regione dove si impiega meno tempo per trovare un impiego è il Trentino Alto Adige dove ai disoccupati in media bastano poco più di quattro mesi. Dinamici anche i mercati della Lombardia (6,8 mesi), Friuli Venezia Giulia (6,9 mesi) ed Emilia Romagna (7,2). Nel Lazio invece si attende un anno circa prima di riuscire a trovare un impiego.
Nelle città europee, secondo i dati dell’Urban Audit Perception Survey, trovare lavoro viene considerato difficile mediamente dal 60% degli intervistati. Le città dove trovare lavoro sembra meno complicato sono Dublino, Manchester, Londra, Helsinki, Parigi e Amsterdam. A Dublino il 47% ritiene che in qualche modo sia semplice trovare un lavoro. All'altro estremo della classifica si trovano Napoli, Berlino, Lisbona, Lipsia e Torino (vedi tabella).
In Italia, dati Cnel-Istat, le persone alla ricerca di un impiego sono quasi due milioni. Più donne (985 mila) che uomini (899 mila). Di questi, 212mila sono laureati, circa 700mila hanno un diploma, altri 700mila la licenza media e 200mila la licenza elementare. Dei 212mila laureati la gran parte (134mila) sono donne mentre gli uomini sono solo 78 mila.
Quanto alla mobilità, circa il dieci per cento dei lavoratori in Italia si sono spostati dalla propria residenza originaria per una nuova. Sette su cento hanno cambiato regione. E’ al Sud che la quota dei lavoratori raggiunge livelli più elevati seppure ancora lontani dalle cifre di una volta. Il 16% dei lavoratori del Sud si sono spostati per lo più al Nord Ovest (il 6,9%) e al Nord Est (il 5,2%). Ma molti sono anche quelli che hanno cambiato residenza pur rimanendo nel Mezzogiorno (il 20,9). A muoversi oggi, a cambiare provincia di residenza, sono soprattutto i laureati (il 15%). E soprattutto ci si sposta per un lavoro a tempo indeterminato. Un sogno, però, difficile da realizzare.
CLASSIFICA REGIONI:
Quanto ci vuole per trovare un lavoro
INTERVISTA:
Emiliano Mandrone, Isfol, responsabile indagine Plus "Premiare la qualità"
LAVORO ATIPICO:
La classifica per regione
TROVARE LAVORO IN EUROPA: Le città dove è facile e dove è difficile
CASA-UFFICIO:
I tempi di percorrenza in minuti
BLOG:
RACCONTA LA TUA ESPERIENZA
Indagine Isfol: nelle regioni del Sud più di venti mesi per un impiego. Tra quattro e sei mesi invece in Lombardia, Friuli, Trentino e Umbria. Come cambiano i tempi di ricerca, la mobilità geografica e quanto si impiega per andare in ufficio nelle regioni italiane.
REGIONI: quanto ci vuole per un lavoro.
LAVORO ATIPICO: % per regione.
TROVARE LAVORO IN EUROPA: dove è facile e dove è difficile.
CASA-UFFICIO: i tempi di percorrenza.
ISFOL: "Premiare la qualità".
BLOG: RACCONTA LA TUA ESPERIENZA
di FEDERICO PACE
I centri per l’impiego, qualche sede delle agenzie per il lavoro. Curriculum spediti a centinaia in risposta agli annunci letti sui giornali e sui siti web. Qualche telefonata in giro. Persino un po’ di lavoro nero. I tentativi tanti, ma i risultati pochi. “Io ho fatto di tutto - racconta L.P., neolaureato di Catania - ho cercato per mesi e bussato a tante porte. Dopo quasi un anno senza risposte, ho deciso di fare un master, ma poi, alla fine, ho trovato solo uno stage di pochi mesi in un’impresa di Milano. Adesso che è finito non so più cosa fare”. Già, adesso, non resta che mettersi di nuovo a cercare.
Nonostante i posti siano sempre più atipici, flessibili o precari, per trovare un impiego ci si impiega sempre più tempo. Anche, e soprattutto, in quelle regioni dove il lavoro è meno standard. E così si apre ancora di più il divario tra le due Italie. E il lavoro diventa il termometro più spietato di una febbre che non accenna a scendere. Nelle regioni del Mezzogiorno, la ricerca di lavoro pare divenire sempre più una specie di odissea dove il tempo non trascorre mai o trascorre troppo rapidamente senza mai portare frutti.
Secondo i dati dell’indagine Plus dell’Isfol, sono i siciliani e i pugliesi quelli che più di ogni altro si ritrovano a dovere fare i conti con una ricerca che sembra non finire mai. In Sicilia, Puglia e Basilicata la durata media di ricerca di lavoro è di oltre ventidue mesi (vedi tabella). Ma anche in Calabria, Campania e Molise si superano i 19 mesi.
“Alle persone preme soprattutto trovare il lavoro in tempi brevi – ci ha detto Emiliano Mandrone, responsabile dell’indagine Plus (leggi l'intervista integrale) – Infatti dal punto di vista individuale ci si aspetta che la flessibilità riduca i tempi di ricerca di lavoro. Rimarchiamo che se la flessibilità assorbe i disoccupati è buona, ma è cattiva se riduce la stabilità e aumenta la precarietà degli occupati. Invece noi ci accorgiamo che la precarietà del lavoro è su livelli più alti al Sud che al Nord, con esiti preoccupanti a medio termine. Il mercato del lavoro del Sud assorbe poco, con tempi, quote e mesi di permanenza nella disoccupazione maggiori rispetto al Centro-Nord. Se al Nord il mercato tende al tipo anglosassone (se io perdo un lavoro, lo ritrovo velocemente), al Sud, invece, perdere il lavoro vuol dire entrare in un percorso di prove ed errori, di concorsi che non si fanno, di iniziative che partono e poi muoiono, se non anche di iniziative capestro. Con risvolti demoralizzanti.”
Si perché la probabilità di avere un lavoro standard al Sud è molto meno elevata che altrove. In Calabria e Puglia è atipico quasi un lavoro su cinque (il 18%). Elevate le proporzioni anche in Sicilia e Sardegna (vedi tabella). E’ il Piemonte invece la regione dove prevale significativamente il lavoro standard.
Spesso le scelte al Sud sono influenzate anche dal contesto familiare. Ed è proprio nelle regioni dove le pressioni familiari sono più elevate che sale la disponibilità ad accettare un lavoro qualunque. E non conta più se un lavoro è “buono” o meno. La stabilità nel tempo dell’occupazione del partner, scrivono gli autori dell’indagine, aumenta in maniera significativa la soglia di accettazione media per le offerte di lavoro. E così si osserva una forte polarizzazione tra Mezzogiorno da un lato e Centro-Nord dall’altro. In Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, ovvero la quota di persone con un partner con lavoro sicuro è più bassa (intorno all’80%) sale di molto la percentuale di chi si dice disposto a lavorare immediatamente (più del 25%). Mentre in Regioni come Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia dove la quota di persone con partner con un posto sicuro è molto elevata (sopra al 90%) la disponibilità immediata a lavorare anche di chi non ha un lavoro scende in maniera sensibile (tra il 7 e il 9%).
Ma vediamo dove le cose vanno meglio. La regione dove si impiega meno tempo per trovare un impiego è il Trentino Alto Adige dove ai disoccupati in media bastano poco più di quattro mesi. Dinamici anche i mercati della Lombardia (6,8 mesi), Friuli Venezia Giulia (6,9 mesi) ed Emilia Romagna (7,2). Nel Lazio invece si attende un anno circa prima di riuscire a trovare un impiego.
Nelle città europee, secondo i dati dell’Urban Audit Perception Survey, trovare lavoro viene considerato difficile mediamente dal 60% degli intervistati. Le città dove trovare lavoro sembra meno complicato sono Dublino, Manchester, Londra, Helsinki, Parigi e Amsterdam. A Dublino il 47% ritiene che in qualche modo sia semplice trovare un lavoro. All'altro estremo della classifica si trovano Napoli, Berlino, Lisbona, Lipsia e Torino (vedi tabella).
In Italia, dati Cnel-Istat, le persone alla ricerca di un impiego sono quasi due milioni. Più donne (985 mila) che uomini (899 mila). Di questi, 212mila sono laureati, circa 700mila hanno un diploma, altri 700mila la licenza media e 200mila la licenza elementare. Dei 212mila laureati la gran parte (134mila) sono donne mentre gli uomini sono solo 78 mila.
Quanto alla mobilità, circa il dieci per cento dei lavoratori in Italia si sono spostati dalla propria residenza originaria per una nuova. Sette su cento hanno cambiato regione. E’ al Sud che la quota dei lavoratori raggiunge livelli più elevati seppure ancora lontani dalle cifre di una volta. Il 16% dei lavoratori del Sud si sono spostati per lo più al Nord Ovest (il 6,9%) e al Nord Est (il 5,2%). Ma molti sono anche quelli che hanno cambiato residenza pur rimanendo nel Mezzogiorno (il 20,9). A muoversi oggi, a cambiare provincia di residenza, sono soprattutto i laureati (il 15%). E soprattutto ci si sposta per un lavoro a tempo indeterminato. Un sogno, però, difficile da realizzare.
CLASSIFICA REGIONI:
Quanto ci vuole per trovare un lavoro
INTERVISTA:
Emiliano Mandrone, Isfol, responsabile indagine Plus "Premiare la qualità"
LAVORO ATIPICO:
La classifica per regione
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