Dal Manifesto del 30/7
E' forse il caso di dare un tocco di sano materialismo al dibattito su salario/reddito, tentando una contestualizzazione che individui le origini storico-sociali delle teorizzazioni in questione. Certo, così si rischia di passare per brontosauri (leggi: dinosauri che brontolano), ma bisogna sottrarsi alla tentazione di voler fare a tutti i costi i moderni per non essere etichettati come antiquati.
Per farla breve, vale la pena di considerare l'ipotesi che nell'enfasi sul basic income pesi una vicenda generazionale: i figli della piccola/media borghesia statale, intellettuale e professionale vedono un futuro lavorativo decisamente al di sotto delle loro aspettative, derivanti dal proprio status familiare. Per questi soggetti il lavoro non si è mai presentato come necessità per campare, ma come fonte di autorealizzazione. Di fronte a un mercato del lavoro che offre ben poco, non si rassegnano ad una perdita di status e fantasticano di una via di uscita collettiva che è, in realtà, mero sotterfugio individualistico, per illudersi di poter continuare a cercare, con le terga parate dalla munificenza statale, la via della propria realizzazione. Insomma, come disse Marx a proposito del socialismo borghese, «vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano». Ovviamente, sto qui facendo riferimento al ceto politico degli attivisti «sanprecaristi», una minoranza certamente capace di trascinarsi dietro una parte, a volte consistente, della massa atomizzata dei lavoratori precari, ma che, al contempo, non è mai riuscita a trasformare la partecipazione a scadenze (rituali e identitarie) in movimento reale, in grado di modificare i rapporti di forza. Di fronte all'astrattezza della proposta politica, prevale il concreto bisogno di mettere insieme il pranzo con la cena.
Anche in considerazione di questa difficoltà, con una verniciatina di «postfordismo», l'autorealizzazione del ceto politico diventa «autovalorizzazione». Che poi, di fatto, significa fare gli imprenditori di se stessi, autosfruttarsi, e per pochi «fortunati», gli imprenditori tout court. Ma in questa scelta si perde l'anelito solidaristico, la connotazione di classe. L'imprenditore è in guerra con tutti, imprenditori o lavoratori che siano. E tanto più l'attività imprenditoriale è marginale tanto più selvaggia ha da essere la concorrenza. Tant'è che, per poter teorizzare un agire collettivo che nella realtà non è dato vedere, ci si è dovuti inventare una spontaneità cooperante e solidale, una sotterranea connessione di menti reticolarmente dialoganti, che sgorgano misticamente dalla monade moltitudinaria.
Ma, con buona pace della moltitudine stessa, non basta «rinunciare all'odiosa rappresentazione» che ci si è fatti del capitalismo per entrare nella «nuova Gerusalemme». Per la massa degli sfortunati autovalorizzantisi, la realtà fa valere la sua cogenza ed allora il tutto si risolve «in un vile piagnisteo» . Noi rivendichiamo soltanto il valore già prodotto, ci dicono i sostenitori del basic income: ma se sfrondiamo questa affermazione dai suoi discutibili presupposti economici, rimane solo la moralistica denuncia dello sfruttamento. D'accordo con la denuncia, ma se bastasse condannarlo per porgli fine il capitalismo sarebbe defunto da molto tempo! Di certo, è bizzarro sentir parlare di ricchezza eccedente a proposito di quelle persone che di sovrabbondante hanno solo gli anni passati in casa con papà e mamma perché, in quanto lavoratori precari, non hanno un soldo per andarsene a vivere da soli.
Infine, due precisazioni. In primo luogo, negare la praticabilità del basic income è cosa diversa dal negare che si debba cercare di ottenere e/o allargare le prestazioni degli ammortizzatori sociali; in secondo luogo, individuare i limiti e gli errori intrinseci ad una pratica politica non significa accusare i soggetti che se ne fanno portatori di non esprimere alcun tipo di conflittualità. Ma se la conflittualità si basa su illusioni, alla fine la realtà fa valere la sua cogenza, magari anche attraverso polizia e magistratura. La realtà si fa beffe delle nostre illusioni. Pur non condividendo una linea politica, in molti casi (e questo è uno di quelli) si deve solidarizzare con chi, perseguendola in buona fede, ne patisce le conseguenze. A chi non è d'accordo resta però il dovere di indicare che ci si sta indirizzando vero un strada senza uscita. Ad altri rimane la responsabilità di aver indicato proprio quella via.
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