25.8.06

Call center, il girone dei nuovi Cipputi. Al telefono per sette euro l'ora

Chi sono e quanto guadagnano i giovani senza posto fisso
Un esercito di 250mila atipici, tutti "schiavi elettronici della new economy"

di BARBARA ARDÙ

ROMA - La fabbrica creava alienati. Quegli uomini alla Charlie Chaplin di Tempi moderni che continuavano a stringere un bullone anche quando era suonata la sirena dell'uscita. Il call center partorisce invece uomini e donne stressati.

Ritmi di lavoro e perenne incertezza sul futuro sono i suoi ingredienti. Che messi insieme o mal miscelati possono diventare esplosivi. Per andare in bagno bisogna attendere che scatti il semaforo verde. Tra una telefonata e l'altra non c'è riposo, neanche un minuto. E ogni volta che si prende in mano la cornetta c'è un contatore che avverte quando è ora di chiudere la comunicazione. Un controllore "anonimo", ma infallibile, che forse fa rimpiangere il vecchio ufficio tempi e metodi di tayloriana memoria che misurava, cronometro alla mano, l'efficienza di Cipputi alla catena di montaggio.

I nuovi Cipputi sono loro, gli operatori di call center, 250mila persone in tutta Italia (80mila occupati con contratto a progetto secondo Assocontact, l'associazione di categoria). Molti lavorano al Sud, perché è lì che le aziende, in tutto 700, trovano conveniente installare i call center. Rispondono al telefono in media per cinque ore al giorno, secondo un'indagine di Rifondazione comunista. Guadagnano tra i 5 e i 7 euro l'ora. All'azienda ne costano 9-10 euro se la lavorano a progetto, 16 se hanno un contratto a tempo indeterminato.

Sono per lo più giovani, venti, trent'anni, ma anche quaranta e quasi tutti hanno un titolo di scuola media superiore, qualcuno ha in tasca anche la laurea. Sono assillati, secondo l'indagine di Rifondazione, da mobbing, ripetitività delle mansioni, mancanza di prospettive e condizioni ambientali di lavoro. Subiscono pressioni di ogni genere. Dalle ferie negate, al consiglio di non ammalarsi, perché rischiano di non essere riconfermati, alle chiamate per Pasqua, Natale, i mesi estivi.

Fanno tutti la stessa cosa, parlano al telefono. Ma c'è una sottile distinzione. Ci sono gli inbound, cioè coloro che rispondono alle domande delle persone che telefonano e gli otbound, quelli che invece alzano la cornetta per chiamare persone cui sottoporre domande per indagini di mercato. I primi, secondo l'ultima circolare del ministero del Lavoro, possono aspirare a un contratto a tempo indeterminato. Gli altri, invece, potrebbero essere inquadrati anche come lavoratori a "progetto". Una distinzione che fa una certa differenza. Di sicuro sono tutti scontenti.

Francesco, il nome è di fantasia, è impiegato da dieci anni alla Atesia, l'azienda obbligata dagli ispettori del lavoro di Roma, ad assumere a tempo indeterminato 3200 lavoratori attualmente a progetto. Ha 40 anni, è sposato e lavorando per 5 ore al giorno guadagna intorno ai 600 euro al mese. Viene pagato in base al numero di telefonate fatte. Talmente tante che alla fine la concentrazione sparisce. "Dopo aver risposto a 120 chiamate in quattro ore spesso esco dall'ufficio salgo in macchina e ho delle difficoltà a guidare", ha raccontato Margherita alla Cgil che ha intervistato dodici lavoratori dei call center di Genova.

Tutti "schiavi elettronici della new economy", come li definisce Claudio Cugusi, nel suo libro Call center, indagine impietosa su una categoria con contratti di lavoro dove a un certo punto compare un comma che recita: "gravidanza, malattia e infortunio sono causa di sospensione del rapporto di lavoro".

(25 agosto 2006)

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