18.7.06

I precari e il 3 + 2

Le riforma del 3+2 vista dai precari dell'universita'

Il 3+2 e la precarietà

L'università a contratto

Le riforme dell'università che si sono susseguite negli anni 90 e concluse con la riforma del 3+2, sono strettamente legate alla questione della precarietà, che negli stessi anni è esplosa fino a diventare tematica di rilevanza nazionale. Il "3+2" e l'autonomia universitaria, infatti, hanno espanso a dismisura il lavoro atipico negli atenei. Dei circa 55000 precari che popolano a vario titolo le aule e i laboratori universitari (assegnisti, borsisti, co.co.co. etc), oltre 40000 [1] sono docenti a contratto, personale precario che per poche centinaia di euro è incaricato dei moduli di insegnamento o di tutoraggio. I "contrattisti" erano stati introdotti dall'allora sinistra di governo come un arricchimento della didattica. Alcuni professionisti con competenze sviluppate al di fuori dell'università avrebbero potuto trasmettere agli studenti la propria esperienza acquisita sul campo, pur senza un rapporto stabile con l'accademia.

Invece, i contratti di docenza sono stati utilizzati per sorreggere la frammentazione e la moltiplicazione dei corsi ormai trimestralizzati, con la conseguente dequalificazione della didattica impartita a studenti che in un anno di università possono arrivare a sostenere anche 15 esami. Non potrebbe essere altrimenti, visto che l'estrema precarietà dei contrattisti li obbliga a interpretare la vita accademica in maniera intermittente e superficiale e a sacrificare la necessaria preparazione alla didattica alla ricerca di altri rapporti di lavoro, altrettanto saltuari, esterni all'università, grazie ai quali sbarcare il lunario.

Università nuova. Anzi, più vecchia di prima

Ma le riforme dell'università hanno avuto forti implicazione sulla precarietà dilagante nel mondo del lavoro anche al di fuori dei campus. Il 3+2, sostanzialmente, ha riorganizzato la didattica in modo da fornire nei primi tre anni competenze specializzate immediatamente spendibili sul mondo del lavoro. La formazione teorica, più approfondita, rimane invece appannaggio di chi persegue la laurea quinquennale. Questa impostazione della didattica, avviata a livello europeo con il "processo di Bologna" con il beneplacito degli organismi economici sovranazionali (FMI e WTO, interessati a fare della formazione un mercato globale, piuttosto che un servizio pubblico efficiente), produce laureati triennali meno preparati, dunque con minori aspettative salariali, ma che possono essere assorbiti più facilmente dalle imprese. Finalmente, hanno pensato in molti, un'università "utile".

Con le riforme di fine secolo, infatti, le università sono divenute istituti di mediazione tra la domanda e l'offerta di lavoro. Invece di consentire a un numero più ampio possibile di persone di accedere all'istruzione di livello elevato garantito dalle università, agli atenei si è chiesto di preparare la forza lavoro di domani in funzione delle esigenze del mercato. Non a caso, proprio questo parametro determina oggi (tra gli altri) l'attribuzione dei fondi ministeriali alle università [2]. Si trattava di un discorso
convincente, in un paese ad alto tasso di disoccupazione (oltre il 10% negli anni 90) e a forte tasso di abbandono universitario soprattutto tra gli studenti meno abbienti. Condita con un'abbondanza di "nuovismi" e "anglismi", la riforma corrisponde tuttavia ad una rappresentazione sorpassata della realtà lavorativa di oggi.

Nella fase attuale, che ha abbandonato le rigidità "fordiste" della produzione e dei diritti sociali dell'era industriale per accedere alla società "liquida" [3] della conoscenza e dei servizi, anche lo statuto dei saperi muta. Chi fa il suo ingresso nel mondo del lavoro adesso, si avvia ad un percorso accidentato in cui gli verrà chiesto di continuare a studiare e di apprendere nuovi linguaggi produttivi, soprattutto per il ruolo centrale giocato dalla comunicazione nel coordinare la produzione, durante tutta l'esistenza. Mentre nel fordismo la preparazione culturale iniziale garantiva un posizionamento sociale più elevato dal primo impiego alla pensione, dunque, la specializzazione superficiale messa al centro dal 3+2 si rivela uno strumento di auto-promozione sociale molto più debole. Le competenze acquisite all'università divengono obsolete rapidamente, e rendono difficile orientarsi e riciclarsi tra le professioni con la rapidità e la flessibilità oggi richieste.

Piuttosto, è ormai riconosciuto che proprio una solida preparazione di base consente di muoversi con autonomia nella babele dei lavori di oggi, in cui la capacità di inserirsi rapidamente in un contesto nuovo, di imparare, di auto-aggiornarsi è decisiva. Solo una base culturale sufficientemente generale (le scienze, certo, ma anche la Storia, l'Economia, la Logica [4]) e approfondita consente di "leggere" i mutamenti sociali che circondano l'individuo e di adattarvisi per tempo.

Questa risorsa, tanto più necessaria quanto più basso è il livello di qualificazione lavorativa, è ora riservata solo all'elite che continua a studiare anche oltre i facili diplomi regalati dal 3+2, che garantiscono solo precarietà. Un istituto culturale che non garantisce più promozione sociale, come l'attuale università, perde anche di legittimazione presso la cittadinanza, che ovviamente se ne disinteressa: come stupirsi, dunque, che persino le riforme del governo Berlusconi non abbiano generato una mobilitazione generale a difesa della scuola e dell'università?

Saperi a misura di precario

Questa impostazione appare tanto più antiquata quando si osservi il sistema produttivo italiano. Della società della conoscenza, infatti, l'Italia conosce per il momento solo l'estrema flessibilità del lavoro. Per il resto, la classe imprenditoriale italiana difende il proprio profitto abbattendo i costi e sfuggendo alla concorrenza piuttosto che attraverso l'innovazione. Diffondendo una cultura di base più elevata a fasce più larghe della popolazione, si rafforzerebbe la selezione di consumi a più alto tasso di innovazione, di beni immateriali, di servizi di livello più elevato, generando un salutare circolo virtuoso anche nella classe imprenditoriale. Paradossalmente, la filosofia che soggiace alle riforme recenti sembra essere opposta: un sistema produttivo vecchio e chiuso modella gli istituti pubblici di istruzione (l'università, ma soprattutto la scuola) a sua immagine e somiglianza, livellandoli verso il basso. Ne azzera così il ruolo di promozione sociale loro assegnato dalla Costituzione, la quale, secondo gli ultimi sondaggi, gode ancora di un certo credito [5].

Note

[1] Dati MIUR 2004/05 http://www.miur.it/scripts/PERS/vPERS3.asp
[2] Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, http://www.cnvsu.it/_library/downloadfile.asp?id=11146
[3] Z. Bauman, "Vita liquida", Ed. Laterza (2006)
[4] Si legga, per un istruttivo quanto "informale" dibattito,
http://vittoriozambardino.blog.kataweb.it/scene_digitali/2006/07/ragazzi_miei_sc.html
[5] http://referendum.interno.it/ind_ref.htm

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