21.5.06

Una vita: i 13 anni di Maria nella cattedrale del precariato

Gennaio ’92. Licenziata; causa: cessata attività dell’azienda, che già da tempo navigava in cattive acque.

Maria ha 36 anni, sposata, 2 figlie di cui una nata da appena un mese.
Conosce bene, Maria, oltre l’italiano, l’inglese e anche il russo perché anni di lavoro nella oramai fallita azienda l’avevano portata a trattare con persone che da quei paesi provenivano.
A 36 anni dunque, Maria approda e tenta di districarsi in quel mare che presto si rivelerà essere il mercato del lavoro, alla stregua di un girone dantesco i cui dannati sono irretiti da una flessibilità parossisiticamente portata dalle regole della concorrenza ad una spregiudicata precarietà professionale... e di vita.
Maria invia 25 curriculum a varie aziende, enti sia pubblici che privati, ambasciate, uffici turistici presso i quali la sua figura professionale sarebbe potuta essere utile o quantomeno “sfiziosamente”interessante.
Le risposte? Mai ricevute. Da nessuno.
Del resto, già nell’Italia del ’92 una donna con competenze linguistiche affatto elementari e 15 anni di esperienza lavorativa maturati nella stessa azienda, ma di 36 anni (e due figlie a carico – particolare non poco rilevante per un qualsiasi datore di lavoro) è già troppo vecchia... meglio dire... matura per il mercato.
Fine ’93. Maria, 37 anni nel frattempo, tramite fruttuosa conoscenza, tentennante si appresta alla sua attività presso un call-center di una delle maggiori società di telecomunicazioni. Non è certo l’agognato posto fisso ma è pur sempre un contratto di collaborazione come consulente telefonico con l’onere di provvedere a noiose attività di telemarketing, estenuanti sondaggi ed interessantissime... rilevazioni statistiche.
Maria lavora tramite partita IVA, come se fosse una libera professionista insomma e possedesse una sua attività personale da cui trarre profitto, ma questa è solo una delle tante soluzioni formali grazie alle quali le aziende che assoldano personale, lungi dall’assunzione, paradisiaco ed elitario miraggio, mascherano l’avere subordinate a sé migliaia di utenze o lavoratori e lavoratrici (atipici e atipiche), caldamente invitati ad attenersi ad orari e turnazioni stabiliti che col libero professionismo poco o nulla hanno a che spartire.
Anno 2000: cambia la legge. Legge Treu. Chiusa la partita IVA, il contratto si trasforma in una collaborazione coordinata e continuativa. Maria è ufficialmente una “co.co.co.”, ha 45 anni ed è, anche lei, orgogliosamente militante tra le innumerevoli fila di giovani – e non – precari che popolano il massivo mondo dei nuovi “assunti” nel settore privato.
Essere “co.co.co” significa: essere entrati a far parte di coloro i quali vengono fortunatamente considerati lavoratori, ma non avere diritto a: ferie e malattia retribuite, non avere mensilmente una retribuzione fissa poiché si percepisce uno stipendio in base a quanto si produce; retribuzione che per ovvi motivi (di lucro aziendale) non potrà essere straordinariamente elevata ma che varierà, a seconda delle oscillazioni del magico mondo della telefonia, tra i 300 e i 700 euro mensili massimo, con una conseguente maturazione di contributi INPS dall’irrisorio o quantomeno scarso valore.
Settembre 2005. L’entrata in vigore della legge Biagi delegittima la legalità dei co.co.co. nel privato, che grazie ad un ingegnoso e puro gioco linguistico si trasformano in co.co.pro. Maria, 50 anni, è ora una collaboratrice a progetto.
Nella forma molto cambia, nella sostanza, nulla: il regime lavorativo per Maria in azienda è sempre lo stesso.
Si staglia nel frattempo nella lontananza dell’orizzonte per lei ed un altro centinaio di miracolati eletti, dopo tredici anni trascorsi tra le cattedrali del precariato, la possibilità di una fatidica assunzione. Il contratto che il sindacato ha difficilmente strappato all’azienda prevede 650 euro mensili, part time di 25 ore lavorative ma con turnazione h 18 cioè tra le 7 di mattina e le 24 di sera, inclusa la domenica.
Un giusto trattamento del resto, per chi è rimasto più di un decennio al servizio di un’azienda, in balia di contratti da rinnovare nel migliore dei casi trimestralmente e che nella paura di essere oggetto di qualche rappresaglia umanamente non ha acconsentito al trattamento dei propri dati.
600 euro, indispensabili ma drammaticamente incongrui per la sussistenza di un ordinario nucleo familiare.

Sara Felline
19/05/2006 20.03.44

Categorie:

Nessun commento: