E’ ampiamente provato già da diversi anni che i lavoratori “atipici” rischiano infortuni, malattie professionali e incidenti mortali molto più dei lavoratori stabili e a tempo indeterminato. In particolare, una ricerca condotta da Eurispes - Ispesl evidenzia che i tassi di mortalità e di infortunio tra i lavoratori precari è almeno due, tre volte superiore rispetto a quello dei lavoratori subordinati. Questo dato viene spiegato innanzitutto chiamando in causa la diffusa e generalizzata tendenza ad assegnare ai lavoratori non stabilizzati compiti pericolosi, mansioni che vanno svolte in ambienti di lavoro insalubri o, comunque, in condizioni di lavoro problematiche: condizioni che il personale a tempo indeterminato, di norma, rifiuterebbe. Vengono inoltre prese in considerazione la connotazione individualizzata del contratto atipico che, in quanto tale, è normalmente (ad eccezione dei rapporti in somministrazione) slegato dai parametri definiti in sede di contrattazione collettiva e la mancanza di tutele sindacali. Per contro, si registra una sottostima delle denunce di infortuni e di malattie professionali dei lavoratori precari che consegue alla loro condizione di ricattabilità e di soggezione psicologica nei confronti del datore di lavoro o del management aziendale. Si delinea, pertanto, una stretta correlazione tra lavoro atipico e rischio di infortuni e morti sui luoghi di lavoro. Dalla ricerca Eurispes emerge che il maggiore rischio infortunistico nel lavoro atipico rispetto a quello subordinato è fortemente legato alla mutata organizzazione del lavoro (Incidenti sul lavoro e lavoro atipico” - Eurispes-Ispesl). Dal 2003 l’Italia, a seguito della condanna emessa dalla corte di Giustizia Europea per il mancato recepimento della direttiva comunitaria lavorativa, prevede l’obbligo per i datori di lavoro di prevenire tutti i rischi che possono incidere sulla salute dei lavoratori, anche di natura psico-sociale o trasversale (D. Lgvo 626/94) . Negli ultimi anni si è sviluppata una accentuata sensibilità rispetto alle ricadute psicologiche delle mutate condizioni di lavoro che ha promosso l’attivazione di inchieste sui fattori di rischio occupazionali principalmente nel settore dei Call Center (Monitoraggio su inchieste nei call center - NidiL Cgil Catania, luglio 2006). La scelta dei Call Center come luogo di lavoro da indagare è dipesa dalla rapida crescita che ha caratterizzato questo settore. Già nel 2002 l’Europa impiegava circa 2 milioni di addetti, ossia l’1,3 % della popolazione attiva, che si aggiungono agli oltre 5 milioni di operatori negli Stati Uniti. In Italia sono stati censiti 700 aziende di Call Center che impiegano più di 250.000 addetti su 3 milioni e 244 mila lavoratori precari. Il Dipartimento Salute e Sicurezza della CGIL Regione Piemonte in collaborazione con l’ASL 5 ha avviato, su sollecitazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di due Call Center, una indagine sull’esposizione ai rischi professionali focalizzando l’attenzione sugli aspetti legati all’organizzazione del lavoro. In particolare, sembra essere l’ambiente sociale ad influire sulla percezione del disagio da parte del lavoratore tra cui un basso livello di controllo sul proprio lavoro, l’imposizione di obiettivi di rendimento (numero e durata delle chiamate), la presenza di sistemi di monitoraggio delle prestazioni e la scarsità di pause (Studio R.O.C.C. Cgil Piemonte). Malgrado questo dato, è descritto che il management aziendale è più propenso a migliorare l’ergonomia e l’ambiente indoor piuttosto che l’organizzazione del lavoro ( Taylor et al, 2003). Fra i risultati attesi, usufruibili anche da parte del Servizio Sanitario della Regione Piemonte, è stata indicata la realizzazione di “Linee guida per la salute e la sicurezza nel settore dei Call Center”.
Massimo Malerba
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