E i precari rischiano di più
di Diego Alhaique
La dimensione europea è ormai un riferimento obbligato se si vuole affrontare seriamente una questione sociale come quella della salute e sicurezza dei lavoratori. È a tutti noto che la nostra legislazione ha fatto passi avanti enormi a partire da metà degli anni Novanta proprio perché obbligata ad attuare nel proprio ordinamento la legislazione europea. A cominciare dal famoso decreto 626 del 1994, che è l’attuazione in Italia della Direttiva cosiddetta “quadro” – la 391 del 1989 – che fissa le regole fondamentali comuni su cui deve basarsi la prevenzione dei rischi nei luoghi di lavoro nei paesi membri.
All’origine di tale legislazione è stata negli ultimi vent’anni la necessità per l’Europa di prevenire il dumping sociale con la definizione di norme comuni anche in materia di salute e sicurezza. L’obiettivo è stato di non indebolire le legislazioni nazionali e, allo stesso tempo, di fare in modo che gli stati membri si impegnassero a garantire l’applicazione di una serie di principi in base ai quali i lavoratori di tutti i paesi usufruissero degli stessi vantaggi. La regolamentazione è fondamentale per fare in modo che le aziende non danneggino i loro dipendenti delocalizzando la produzione in zone dove più debole è la tutela.
Ma l’esigenza di proteggere la salute e la sicurezza di tutti i lavoratori a prescindere dai confini sta assumendo una rilevanza sempre maggiore in presenza di un commercio internazionale totalizzante, della globalizzazione e dell’allargamento dell’Ue. I dati disponibili forniscono un quadro della situazione tuttora preoccupante e indicano che la politica sociale europea deve essere ulteriormente migliorata e resa efficace. Nel 2004 il Rapporto della Commissione sull’attuazione delle Direttive in materia di salute e sicurezza evidenziava che il numero di infortuni con oltre tre giorni di assenza per 100.000 lavoratori era passato dai 4.539 del 1994 ai circa 4.016 del 2000. Questo calo riflette i miglioramenti in materia di salute e sicurezza registrati in quel periodo di tempo. Ma in numeri assoluti quasi 5.200 lavoratori muoiono ancora ogni anno a causa di un infortunio sul lavoro.
Complessivamente continuano a verificarsi circa 4,8 milioni incidenti per anno, con quasi il 14 per cento dei lavoratori che subisce più di un infortunio. Ciò significa che nel 2000 nell’Unione Europea complessivamente sono andate perdute 158 milioni di giornate lavorative, pari a una media di venti giorni per ciascun infortunio. Il fatto che circa il 7% degli infortunati non può tornare al proprio lavoro, che il 4% circa deve lavorare meno ore o addirittura non può più lavorare, segna una battuta di arresto nel cammino verso il traguardo della piena occupazione stabilito a Lisbona. Quasi 300.000 lavoratori sono vittime di vari tipi di invalidità permanente a seguito di un infortunio o di una malattia professionale ogni anno e 15.000 vengono completamente esclusi dal mercato del lavoro. A seguito di un infortunio circa 350.000 lavoratori hanno dovuto cambiare lavoro. Si stima che il costo totale di tutto ciò ammonti a una cifra compresa tra il 2,6 e il 3,8 per cento del Pil. Queste cifre stanno a indicare gli elevati costi economici indotti dalla mancanza di una adeguata politica sociale, mentre è stato valutato che la riduzione complessiva degli infortuni sul lavoro a partire dall’entrata in vigore della legislazione comunitaria ha determinato vantaggi economici pari a circa 25 milioni di giornate di lavoro risparmiate.
Quali le prospettive, dunque, per un nuovo impulso dall’Unione europea nell’affrontare questa situazione? All’inizio del 2005 la Commissione ha pubblicato il nuovo piano di politica sociale dove si descrivono anche i progetti relativi alla strategia in materia di salute e sicurezza per il periodo 2007-2012. Al centro ci sono i nuovi rischi, la garanzia di livelli minimi di protezione e la copertura per quei lavoratori che attualmente non sono garantiti. L’intenzione della Commissione di volersi impegnare soprattutto su questi temi è certamente apprezzabile, ma per risultare efficace, il programma dovrebbe procedere a un inventario delle risorse pubbliche (normative, finanziarie e umane) destinate da ogni stato membro alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Se c’è un insegnamento che possiamo trarre dalla politica comunitaria degli ultimi quindici anni, è l’importanza di fare in modo che le strategie di prevenzione comunitarie e nazionali confluiscano. Troppo spesso, infatti, gli Stati si sono limitati a recepire nella loro legislazione le direttive, copiandole alla lettera senza fornire i mezzi necessari ad attuarle in pratica.
Da parte sindacale si pone l’esigenza che la nuova strategia preveda attività adeguatamente mirate e con tempi di realizzazione stabiliti e che la Comunità si concentri soprattutto su due rischi di grande rilevanza: i disturbi muscolo-scheletrici (principalmente dovuti a una organizzazione del lavoro dominata dallo stress) e le sostanze chimiche, perché in materia il quadro normativo è decisamente superato. Infine, garantire un’equa protezione a tutti i lavoratori significa fare qualcosa anche per quei lavoratori che non godono di sicurezza alcuna sul lavoro. Il dilagare del modello “assumi e licenzia” esige un pedaggio elevato in termini di salute in tutta Europa. Le disposizioni comunitarie vigenti non sono in grado di affrontare il problema. Il diritto dei lavoratori alla rappresentanza collettiva, garantita dalla direttiva quadro del 1989, è un altro punto centrale. Molti lavoratori, soprattutto quelli in affitto e quelli occupati nelle pmi, sono esclusi dalla direttiva. Negli anni a venire sia la salute sul lavoro che l’ambiente costituiranno delle sfide importanti: l’Europa del post-allargamento sarà in grado di diventare qualcosa di più di un grande mercato governato da una concorrenza aggressiva cui subordinare la salute dei lavoratori? Oppure si riuscirà a realizzare un’Europa sociale, capace di migliorare la qualità delle condizioni di vita di lavoro?
(www.rassegna.it, il Mese di Rassegna sindacale, luglio 2006)
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