11.7.08

Nel 2010 in Cina ci saranno 797 milioni di lavoratori: il più grande mercato del lavoro al mondo

Giorgio Mele
Per gentile concessione di "Limes, rivista di geopolitica"

da Liberazione dell'11 luglio 2008

Giorgio Mele
Per gentile concessione di "Limes, rivista di geopolitica"
Nel 2010 in Cina ci saranno 797 milioni di lavoratori: il più grande mercato del lavoro al mondo. Un mercato con poche regole e pochi diritti, selvaggio e complesso, che sta cambiando drasticamente gli equilibri geopolitici ed economici del pianeta, a cui guardano con at- tenzione, avidità e talvolta con una certa preoccupazione tutte le economie occi- dentali. Fino alla morte di Mao la Cina non aveva un vero mercato del lavoro. Era direttamente il Partito comunista cinese a programmare le assunzioni nei diversi comparti e a stabilire in mancanza di relazioni industriali e contrattuali i trattamenti economici e normativi. Subito dopo la morte di Mao, il gruppo dirigente del Pcc avvia con cautela e determinazione un'apertura alle logiche di mercato.
Il processo di riforma dell'economia cinese inizia nel 1978 con la riforma delle aree rurali, cui seguirà nel 1984 quella delle aree urbane. Obiettivo: incentivare una maggiore mobilità del lavoro e superare il monopolio statale dell'allocazione delle risorse al fine di creare per la prima volta un mercato del lavoro meno vincolato, più efficiente e decentrato.
Nel 1992, dopo quasi dieci anni di riforme tese a stabilizzare una economia socialista di mercato, il governo si propone di ridefinire gli assi principali dell'economia incoraggiando lo sviluppo di elementi economici diversificati; la creazione di un moderno sistema di impresa per rispondere alle necessità di un'economia di mercato, un sistema di mercato unificato e aperto in tutta la Cina per mettere in collegamento il mercato interno con quello internazionale.
Viene inoltre avviata la trasformazione del management per stabilire un controllo complessivo sull'evoluzione del sistema e incoraggiare aree e gruppi di impresa. Al contempo, viene formulato un piano di sicurezza e stabilità sociale sia per i residenti delle aree rurali che per quelli delle aree urbane, così da promuovere sviluppo economico insieme a sicurezza e stabilità sociale. Con queste riforme il sistema socialista di mercato si trasforma completamente, a causa del ruolo assolutamente preponderante assunto dal capitale privato interno e internazionale, pur nel contesto di un saldo controllo pubblico del macrosistema.

In questi anni la Cina è diventata il sogno e la meta ideale di ogni capitalista dell'orbe terracqueo, l'Eldorado dove tutto è possibile, in primo luogo arricchimenti e profitti come non se ne vedevano in Occidente dal 1847.
Ed è stata corsa spasmodica per accaparrarsi i posti migliori, nei distretti intorno a Shenzhen, nella fascia costiera del Sud-Est o altrove: Nike, Adidas, Mattel, Walt Disney e altre centinaia di migliaia di imprese americane ed europee, comprese quelle di casa nostra.
La base su cui si regge questo Eldorado sono le condizioni misere dei lavoratori e della classe operaia cinesi. Tutti gli osservatori e gli analisti sono concordi nell'affermare che il programma di protezione sociale è stato completamente disatteso ed è venuta emergendo una colossale questione sociale fatta di abbandono forzato delle campagne, migrazioni di massa verso le città, bassi salari, sfacciato arbitrio padronale, mancanza di diritti sindacali, sfruttamento della manodopera femminile e di quella infantile. Quanti giocattoli della Disney sono stati costruiti dalle mani martoriate dei bambini cinesi? Per confezionare un paio di Timberland che in Europa costano oltre 150 euro nella città di Zhongshan un ragazzo di 14 anni guadagna 45 centesimi di euro. Il salario medio si aggira attorno ai 900 yuan al mese per un orario che per i ragazzi può toccare le 15 ore al giorno.
Le condizioni di lavoro sono molto pesanti sia nelle imprese pubbliche che in quelle private locali o occidentali. Spesso manca qualsiasi protezione, non vi sono misure adeguate di prevenzione. Infatti il numero degli incidenti sul lavoro è molto elevato. Molti lavoratori vengono dalle campagne e spesso dormono e vivono ammassandosi in 10 o 12 per stanza in edifici di proprietà dell'azienda. Non è raro che per questo «servizio» vedano decurtato il proprio salario mensile del 40%.
Le gravose condizioni di lavoro hanno prodotto, a partire dalla fine degli anni Ottanta, una diffusa tensione sociale a cui il governo ha risposto nel tempo con provvedimenti parziali e spesso con la repressione. All'inizio degli anni Novanta, con l'abolizione della quota programmata di assunzioni da parte delle imprese pubbliche scompariva un ammortizzatore sociale che aveva nel passato garantito stabilità, standard retributivi uniformi. Con il decentramento e la progressiva liberalizzazione delle logiche di incontro tra domanda e offerta di lavoro si innescano le prime tensioni sul mercato del lavoro che il governo gestisce con l'introduzione di un primo sussidio di disoccupazione per i lavoratori delle aree urbane.

Il governo cinese ha risposto varando una serie di provvedimenti legislativi tesi a regolare i rapporti di lavoro e i contratti collettivi di lavoro. Nel 1992 viene approvata la Trade Union Law, in cui si afferma che le organizzazioni sindacali possono firmare contratti collettivi di lavoro con le direzioni delle aziende. È la prima volta che i contratti collettivi vengono menzionati nella legislazione cinese sul lavoro.
Il provvedimento più importante del decennio Novanta è stata la Labour Law del 1994, con cui i contratti collettivi diventano una possibilità reale. Con questo provvedimento si interviene con maggiore precisione sulla natura e sugli obiettivi dei contratti collettivi di lavoro. La legge permette - ma solo nelle aziende con almeno 25 addetti - ai lavoratori e alle imprese di poter siglare contratti collettivi o particolari accordi su salari, orario di lavoro, sicurezza, ferie, salute, assicurazioni e welfare. La legge afferma, anche qui per la prima volta, il carattere pienamente legale dei contratti collettivi, ulteriormente ribadito da una circolare del ministro del Lavoro del dicembre dello stesso anno in cui si indicano le linee guida di implementazione del sistema dei contratti collettivi. La legge stabilisce che i contratti collettivi possono essere siglati da sindacati rappresentativi, ma laddove il sindacato non esiste essi possono essere firmati da rappresentanze scelte dai lavoratori e dalle imprese. Con il successivo documento Regulations on Collective Contracts, emanato dal ministro del Lavoro, viene stabilito che i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti. Se in un'azienda non vi è un sindacato, i lavoratori possono nominare la loro rappresentanza, che deve ottenere il voto favorevole della maggioranza dei lavoratori di quell'azienda.
In Cina, ancora oggi, l'unico sindacato riconosciuto per legge è la All China Federation of Trade Union (Acftu), che detiene il monopolio della rappresentanza. Tale monopolio fino alla fine degli anni Ottanta era assoluto e si esercitava nel far rispettare nei luoghi di lavoro le direttive del partito. Dagli inizi degli anni Novanta però, con i processi di privatizzazione, il panorama delle relazioni all'interno alle aziende comincia a diversificarsi e lo sviluppo dei primi veri conflitti sui luoghi di lavoro mette in difficoltà l'Acftu, che nel congresso nazionale dell'ottobre 1993 deve riconsiderare e allargare il proprio ruolo. (...)

Subito dopo l'approvazione della Labour Law il ministero e il sindacato affermano priorità differenti. Il principale obiettivo del ministero è promuovere contratti individuali all'interno delle imprese, mente l'Acftu concentra il suo impegno sui contratti collettivi. Questa diversità di intenti non deve far pensare a un conflitto acuto con il governo o con il partito. Come sottolinea il China Labour Bulletin , l'Acftu è sempre stato legato strettamente al Partito comunista ed è credibile che i dirigenti del sindacato abbiano avuto un via libera dal partito prima di impegnarsi per la promozione dei contratti collettivi. Se tale permesso non fosse arrivato la autonoma promozione del sistema di contrattazione collettiva da parte dell'Acftu sarebbe stato seriamente compromesso.
Alla fine del 1995 infatti su 2,5 milioni di imprese solo 48.431 hanno sottoscritto un contratto collettivo. Per molte organizzazioni sindacali locali la promozione del sistema di consultazione collettiva «non era qualcosa che potesse essere fatto semplicemente per il desiderio del sindacato (attraverso una spontanea e libera contrattazione); esso richiedeva la stretta collaborazione delle direzioni aziendali, il riconoscimento delle agenzie del governo, un alto livello di supporto dai dipartimenti impegnati nella riforma del sistema, il sostegno e la comprensione dell'opinione pubblica».
In alcune aziende le rappresentanze sindacali locali costituiscono gruppi di lavoro composti da lavoratori e funzionari del partito per studiare e promuovere il sistema di contrattazione collettiva. Questi gruppi di lavoro elaborano un modello contrattuale fondato su un processo di concertazione con tutti i soggetti sociali e istituzionali nelle singole aree più che su una genuina e libera dialettica contrattuale aziendale. Ne scaturisce un processo che promuove la contrattazione a partire dall'alto, con uno schema che si applica a cascata a tutte le realtà produttive.
Questo è lo schema con cui l'Acftu promuove su larga scala, dopo il 1996, il sistema di contrattazione collettiva. Infatti a partire da quella data i contratti collettivi sono promossi attraverso una concertazione tripartita tra sindacato, ministero del Lavoro e associazione nazionale delle imprese.

L'Acftu si decide allora a impegnarsi attivamente nella campagna per l'estensione dei contratti collettivi a partire dalle aziende di Stato. Tuttavia incontra grandi ostacoli, perché proprio in quegli anni il governo mette in atto il programma di privatizzazione di massa delle aziende pubbliche, durante il quale centinaia di migliaia di queste aziende vengono chiuse, fuse, rilevate o liquidate, e milioni di lavoratori vengono licenziati. (...)
I contratti collettivi normano, oltre al salario, altri temi specifici del mondo della produzione. Ad esempio i contratti specifici sui diritti delle donne lavoratrici, specialmente nelle imprese di servizio dove c'è la più grande concentrazione di occupazione femminile. I contratti riguardano per lo più i congedi di maternità, esami ginecologici, ma mai casi di molestie sessuali o di sfruttamento. (...)

Il giudizio negativo sull'efficacia dei contrati regionali lo si può estendere a quasi tutti gli accordi stipulati in questi anni. Le condizioni delle maestranze nella Repubblica Popolare Cinese rimangono pesanti, salvo alcune nicchie di alcuni comparti dei settori alti della produzione, in cui anche i salari sono notevolmente aumentati. Il processo di sindacalizzazione non ha prodotto ancora un progresso significativo per i lavoratori cinesi né in termini di potere d'acquisto né in termini di diritti.
Come sottolinea il China Labour Bulletin condizioni del rapporto tra lavoratori e aziende è come quello nel periodo iniziale della rivoluzione industriale. L'impatto di questa situazione sui diritti e sulle condizioni dei lavoratori è drammatico.
Si è perciò avuto in questi anni un considerevole aumento delle proteste operaie con scioperi, cortei, sit-in. È cresciuto il numero delle vertenze rilevate presso i vari Labour Dispute Arbitration Committee (Ldac). Le vertenze e le proteste investono sia le aziende nazionali che quelle con investimenti provenienti da Taiwan e Hong Kong - concentrate nella fascia costiera del Sud-Est - sia le grandi industrie occidentali. La maggioranza dei lavoratori di queste compagnie sono migranti dalle terre più povere e meno sviluppate della Cina che hanno deciso di non sopportare più le drammatiche condizioni in cui erano costretti a vivere. (...)
Le proteste aumentano negli anni successivi. Il 2007 è caratterizzato da un incremento considerevole degli scioperi operai, specialmente nella zona del Dogguan.
È importante ricordare alcune battaglie sindacali condotte direttamente dall'Acftu con alcuni colossi occidentali, come il braccio di ferro con Wal-Mart, il gigante americano della grande distribuzione, costretto ad accettare l'ingresso dei sindacati nei suoi ipermercati in Cina.

Nel quadro piuttosto grigio che abbiamo finora descritto, si è insomma aperto e sviluppato un ciclo di lotte di un certo peso, specie negli ultimi anni. Sicché il governo cinese è stato costretto a dare un segnale di risposta alla crescente insofferenza delle classi lavoratrici. Alla fine del 2005 sono stati innalzati i minimi salariali e nel 2006 è stata approvata una legge che stabilisce l'innalzamento degli standard del welfare nelle aree urbane.
Sempre nel 2006 la dirigenza del Partito comunista cinese ha deciso di proporre una nuova legge sui contratti di lavoro che avesse l'obiettivo di migliorare i diritti dei lavoratori. La tutela dei lavoratori rientrava in una correzione di rotta più vasta imposta dal presidente Hu Jintao. Diversamente dal suo predecessore Jiang Zemin, che passava per «americano», Hu Jintao ha manifestato simpatia per una sorta di modello socialdemocratico che si ispira al capitalismo sociale di alcuni paesi europei. In molti discorsi Hu Jintao e il suo premier Wen Jiabao hanno messo l'accento sulla stabilità sociale dello sviluppo. Altre parole d'ordine di questa nuova politica sono la tutela dell'ambiente, la lotta alla corruzione, il riequilibrio della crescita a favore delle zone più arretrate, la costruzione di un Welfare State (pensioni e sanità). (...)
La legge è stata approvata nel giugno del 2007 ed è entrata in vigore il 1°gennaio del 2008, accogliendo alcune delle richieste delle grandi corporations occidentali, il cui atteggiamento dimostra quanto sia falsa la loro preoccupazione per i diritti umani, specialmente quando si parla di lavoro e di profitto. Negli ultimi mesi del 2007 molte aziende hanno messo in campo mille espedienti per eludere la nuova normativa: alcune hanno tentato di licenziare e poi riassumere i loro dipendenti che avevano maturato un'anzianità in base alla quale avrebbero potuto avanzare nuovi diritti in forza delle nuove norme.
Per i sindacati europei, che in questi anni hanno accresciuto i loro rapporti con il mondo sindacale cinese e sono impegnati direttamente in corsi di sindacalizzazioni in varie aziende a capitale straniero, la legge è formalmente un significativo passo avanti nella legislazione sul diritto del lavoro. Essi sottolineano che la nuova normativa è valida per tutti i luoghi di lavoro, sia pubblici che privati. Ciò potrebbe avviare la regolarizzazione della situazione di milioni di lavoratori, donne e uomini sottoposti a pesante sfruttamento, in primo luogo quei migranti che hanno lasciato la loro terra e coloro che hanno subito l'emarginazione dal ciclo produttivo a causa delle privatizzazioni.
Secondo la legge, tutti i lavoratori devono avere un contratto scritto e se un imprenditore si sottrae a questo obbligo qualunque rapporto si intende a tempo indeterminato. I lavoratori possono dimettersi entro 30 giorni e non sono tenuti al preavviso se il loro datore di lavoro è inadempiente nei loro confronti. Si prevedono sanzioni nei confronti dei funzionari che non fanno rispettare le norme sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Viene in parte scoraggiata la pratica dei contratti a tempo determinato, che possono essere rinnovati solo due volte. Vengono introdotti alcuni limiti ai licenziamenti. Viene rafforzato il ruolo dei sindacati, che devono essere consultati sui regolamenti aziendali, per la conclusione dei contratti, in caso di dismissioni per ragioni economiche. (...)
La speranza dei sindacati europei è che questa legge possa aprire un'epoca di allargamento dei diritti per tutti i lavoratori cinesi. Il limite più grande è che ancora non viene riconosciuta la libera dialettica sindacale e la costituzione di altri sindacati, quindi permane il rischio che le cose continuino come negli anni precedenti. Ma da quando la legge è entrata in vigore sono cresciuti i casi di contenzioso e il risultato è stato finora quasi sempre a favore dei lavoratori. È comunque evidente che la gestione di questi conflitti ha bisogno di più democrazia, di un quadro legislativo più avanzato, di una maggiore e più vera dialettica sindacale.

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